Piattaforma Immigrazione: spunti di riflessione su normativa, realtà di lotta e prospettive future in Italia e in Europa.
PERCHÈ QUESTO DOCUMENTO
Attraverso questo documento vogliamo porre le basi per una riflessione sull’immigrazione che faccia da preludio all’elaborazione e all’allargamento di un percorso di lotta. L’immigrazione, infatti, rappresenta un elemento politico centrale sia dal punto di vista del comando che della resistenza. Il governo della mobilità della forza lavoro (come più in generale della produzione e circolazione di qualsiasi merce), di cui la gestione dei flussi migratori è parte centrale ancorché non l’unica, rappresenta un elemento fondamentale da cui partire per comprendere le forme di dominio e sfruttamento. Ritmi e flussi migratori sono fortemente condizionati, e si scontrano, con pratiche di governo che hanno nell’Unione Europea un nodo di potere sempre più significativo – ancorché non del tutto omogeneo o unidirezionale. D’altra parte, all’interno di questo scenario il contesto italiano presenta certamente alcune specificità sia sul piano governativo e legislativo, che su quello delle lotte. È su quest’ultimo piano che vogliamo soffermarci, partendo da quelle lotte che già esistono e allo stesso tempo dando seguito alla necessità di rilanciarne di nuove.
In Italia (e non solo) nella fase attuale la continuità e l’impatto delle lotte sono dati in larga misura da una forte presenza immigrata, come testimoniato largamente all’interno dei principali fronti rivendicativi attualmente aperti. Non per questo ‘gli immigrati’ rappresentano necessariamente o di per sé un’avanguardia politica, poiché forti sono le divisioni, le contraddizioni e i limiti che attraversano il segmento più ricattabile della forza-lavoro contemporanea. Né tantomeno possiamo pensare di costruire lotte settorializzate sulla base della cittadinanza (o peggio ancora di altre discriminanti). Ma gli immigrati costituiscono un potente motore per il conflitto proprio in virtù della posizione che occupano all’interno dei processi politico-economici. Dobbiamo, perciò, dare atto che è là dove più forti sono le contraddizioni che il conflitto è necessariamente più marcato, almeno potenzialmente e magari in maniera scomposta, e deve in ogni caso essere sostenuto elaborando strategie efficaci. Nella consapevolezza che i processi che producono ricattabilità sono un pilastro fondamentale delle forme contemporanee di dominazione capitalista, che proprio attraverso la ricattabilità crea frammentazione, e per questo vanno compresi per essere scardinati.
L’ITALIA E L’EUROPA
Nel corso degli ultimi mesi l’immigrazione, nelle sue innumerevoli articolazioni, è diventata una delle protagoniste indiscusse del dibattito pubblico, tra (tentativi di) analisi, proclami e provvedimenti. Da una parte, l’irrompere di una ‘crisi’ migratoria ha reso estremamente chiaro come la volontà e il bisogno di spostarsi delle persone prescindono dal rischio, spesso mortale, che si può correre sfidando i confini. Dall’altra, la spettacolarizzazione di questa ennesima crisi gestita ad arte (con l’immancabile speculazione che se ne fa) rende opachi i meccanismi strutturali che vi stanno alla base.
La forza dei flussi migratori ha in un certo senso messo con le spalle al muro i governanti europei, che si sono visti costretti ad affrontare le conseguenze delle loro politiche di guerra, rapina e saccheggio. Anni di denunce, morti, violenze e vite mercificate in ogni loro aspetto hanno chiarito come il governo europeo della mobilità (attraverso provvedimenti quali ad esempio il regolamento di Dublino, che costringe chi vuole chiedere asilo a farlo nel primo paese ritenuto “sicuro” in cui approda) non sia affatto basato sulla tutela dei diritti fondamentali ma su ben precisi calcoli economici e politici, che si avvalgono di una demarcazione del tutto strumentale e fuorviante tra immigrati economici e richiedenti asilo/rifugiati. Da quando l’Europa ha delocalizzato le sue industrie, per entrare legalmente sul suo territorio non resta che far leva sul fattore umanitario. D’altro canto, a questo processo di riassetto produttivo si è affiancato un processo di progressiva definizione e solidificazione di diversi livelli di diritti ed inclusione, che ha un perno fondamentale nella gestione della mobilità: con l’istituzione della libera circolazione per i cittadini europei all’interno dell’unione si è sancito l’irrigidimento delle norme che regolano l’ingresso e la circolazione in questa stessa area per i cittadini di paesi terzi.
Le risposte messe in campo negli ultimi mesi da chi governa confermano una volta di più come all’incontenibile domanda di libertà si oppongano “soluzioni” basate sulla repressione, sulla sua coordinazione ed esternalizzazione – si vedano, come ultimo eclatante esempio, la sospensione ad hoc degli accordi di Schengen e i massicci finanziamenti erogati alla Turchia -, attraverso misure che vanno dalla detenzione al respingimento, ma anche con i piani di creazione di una polizia di frontiera europea. Il fallimento delle fantomatiche ‘quote’ di ricollocazione dei richiedenti asilo entrati in Italia, Grecia e Ungheria, in un quadro in cui anche il “magnanimo” governo tedesco ridimensiona sempre di più le sue aperture è emblematico di questa ipocrisia. È d’altronde lo stesso governo tedesco, insieme a quelli di Danimarca e Svizzera, a promuovere una politica di espropriazione dei beni in possesso dei richiedenti asilo per finanziare la loro ‘accoglienza’. In Italia, il millantato afflato umanitario del governo viene usato come merce di scambio per negoziare condizioni fiscali più favorevoli con la Commissione e per ottenere finanziamenti ed agevolazioni che non verranno spesi per potenziare e migliorare l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, ma per mitigare le politiche di austerity sui cittadini.
L’Unione Europea nel suo complesso, così come i singoli stati membri, si avvalgono di una brutale criminalizzazione per governare la (ri)collocazione di masse spossessate dei loro mezzi di sostentamento, basata su criteri che privilegiano gli interessi economici di pochi. In Italia ed in Europa non esistono meccanismi d’entrata reali e sicuri per le persone che emigrano da paesi terzi. Gli immigrati in età lavorativa rappresentano la necessaria forza lavoro – a basso costo ed altamente ricattabile – che deve entrare in Europa solo ed esclusivamente per sopperire all’assenza di manodopera in determinati settori in cui l’esternalizzazione non è possibile o auspicabile. L’immigrazione, inoltre, permette di pagare le pensioni di una popolazione europea sempre più vecchia, a fronte di scarsissime prospettive per gli immigrati di poter percepire a propria volta un indennizzo per gli anni di lavoro svolto, soprattutto per chi sceglie di tornare nel proprio paese d’origine. Questo processo regola al ribasso i salari per tutta la classe lavoratrice, incrementando ulteriormente la ricattabilità nel mondo del lavoro.
Tutto ciò viene realizzato prima di tutto attraverso le leggi che regolano la mobilità in ingresso – in Italia la Bossi-Fini (già Turco-Napolitano). Queste leggi hanno reso gli immigrati gli unici portatori del “reato di disoccupazione” in base al quale, nella maggior parte dei casi, se non hai più un contratto di lavoro perdi anche il permesso di soggiorno e a quel punto diventi irregolare (commettendo un reato, che il governo si rifiuta di abolire nonostante i richiami della Corte Europea). In pratica se sei immigrato, o lavori e ti fai sfruttare con bassissimi salari, o sei un irregolare perseguibile per legge. Questa fabbrica d’irregolarità, peraltro, ci viene spacciata ipocritamente come una necessaria misura di sicurezza, quando in realtà la produzione di ‘clandestini’ è proprio ciò che il governo della sicurezza dovrebbe evitare. Come se non bastasse, negli ultimi anni i già carenti meccanismi di ingresso per i cosiddetti ‘migranti economici’ sono stati sbarrati, lasciando come unica strada per chi cerca un futuro migliore in Europa quella della richiesta d’asilo. L’ultimo ‘decreto flussi’ per lavoro non stagionale, che permetteva realmente l’ingresso (o più probabilmente la regolarizzazione) di quote significative di cittadini non comunitari, è stato varato nel gennaio 2011. Di fatto, negli anni, i decreti flussi hanno funzionato da sanatorie – che si sono aggiunte a quelle vere e proprie, emanate sporadicamente, di cui l’ultima nel 2012. Si ricorda quella del 2009 (nota come sanatoria ‘colf e badanti’), misura straordinaria di regolarizzazione che ha rappresentato un modo per il governo di ‘battere cassa’ sulle spalle dei migranti e per sedicenti datori di lavoro senza scrupoli di truffare migliaia di persone che ad oggi, a fronte di ingenti quantità di denaro spese, non hanno ottenuto alcun permesso (nonostante le forti azioni di protesta, come ad esempio il movimento della gru a Brescia).
Come se non bastasse, in tutta Italia la maggior parte dei comuni oppone una forte resistenza nel concedere l’iscrizione anagrafica come senza fissa dimora. Questa forma di discriminazione colpisce soprattutto coloro (italiani e non) che vivono in condizioni di estrema precarietà abitativa (in baracche o case diroccate, e cioè occupazioni abitative o situazioni ad esse analoghe dal punto di vista legale), come i braccianti stagionali stranieri, tra gli altri, o che semplicemente non hanno regolare contratto d’affitto perché i proprietari delle case in cui vivono si rifiutano di registrarlo. Per i cittadini non UE la residenza rappresenta un elemento di ancor maggiore importanza, poiché spesso è necessario al rinnovo del permesso di soggiorno, nonostante non sia un requisito formalmente richiesto per questo fine. Purtroppo, sono frequenti i casi in cui le persone diventano irregolari proprio perché prive della residenza. Parallelamente, il Piano Casa ha determinato ulteriori restrizioni al diritto alla residenza, lasciando di fatto l’iscrizione anagrafica come senza fissa dimora quale unica alternativa, che però per quanto detto non è praticabile – sebbene i risultati delle ultime mobilitazioni dei lavoratori delle campagne lascino ben sperare in questo senso.
Per quanto detto, sia che si entri come richiedenti asilo – pagando a caro prezzo il viaggio (via aereo, via mare o via terra), molto spesso anche con la vita – che se si sia usufruito di flussi per lavoro, per gestire gli ingressi si è innestato e radicato un meccanismo di profitto, nei paesi d’origine così come nei paesi di transito e nei paesi d’arrivo. Meccanismo che viene alimentato anche una volta ottenuto un permesso di soggiorno, per poterlo mantenere: dalla residenza al contratto di lavoro, in Italia i migranti pagano tutto a caro prezzo grazie a leggi ed amministrazioni razziste. D’altronde, anche i figli di questi “cittadini di serie B”, se nati in Italia, possono sperare di ottenere pieni diritti soltanto se i loro genitori raggiungono una certa soglia di reddito, di fatto condannando i poveri ad essere tali attraverso le generazioni!
In questo scenario, a partire dai conflitti esplosi in Nord Africa nel 2011 e a seguito del radicalizzarsi degli effetti della crisi economico-finanziaria, si è andato definendo un nuovo regime di governo della mobilità. Ai flussi regolati di ingresso per lavoro, sospesi in Italia proprio nel 2011, si sono sostituiti quelli dei richiedenti asilo, arbitrariamente definiti degni di protezione umanitaria internazionale solo in una minoranza di casi, peraltro sempre più esigui, e comunque sfruttati come qualsiasi ‘migrante economico’ (emblematico in questo senso è il caso del settore agricolo). La spettacolarizzazione della loro condizione di vittime, o di usurpatori di diritti e quindi criminali, cela meccanismi di sfruttamento che passano anche attraverso le migrazioni interne all’Unione, favorite dai processi di allargamento ad est con l’ingresso di Polonia, Romania e Bulgaria.
Inoltre, il capitale ha trovato negli immigrati un target preferenziale e assolutamente redditizio per la creazione di uno specifico settore: quello dell’accoglienza. Il sistema di “accoglienza” in Italia, che nei suoi vari livelli si dichiara finalizzato a smistare, fornire servizi e protezione ai richiedenti asilo e rifugiati, si è rivelato assolutamente fallimentare negli anni. Per come è pensato e attuato oggi, il sistema di accoglienza e protezione italiano non produce quasi mai percorsi di inclusione, né sostiene le persone nella costruzione della propria autonomia e soggettività, ma piuttosto assoggetta, produce disagio, marginalità, isolamento e una grande massa di manodopera di riserva, controllata e mantenuta in un limbo (burocratico e di vita), più facilmente ricattabile e sfruttabile o, se ritenuta superflua, semplicemente abbandonata al proprio destino. Il sistema di profitto che gira attorno all’accoglienza ha raggiunto livelli di complessità e stratificazione molto alti, prevedendo l’esternalizzazione dei servizi da parte dello stato a imprese private (le cooperative) che a loro volta appaltano ulteriori servizi a aziende esterne, utilizzando spesso le agenzie interinali per contrattualizzare i lavoratori. Un meccanismo di profitto e sfruttamento ben rodato in molti settori economici dell’Italia contemporanea.
Questo business è cresciuto perché favorito e avvallato dalle istituzioni, che, continuando ad affrontare la questione immigrazione in maniera emergenziale, hanno permesso e permettono la sospensione dello stato di diritto, in questa come in molte altre situazioni (vedi la costruzione di tendopoli, o gli affidamenti diretti di servizi senza gare d’appalto). Ciò ha favorito i meccanismi tipici dell’accaparramento di ingenti capitali e della loro gestione criminale: voti di scambio, turbativa di gare, repressione nei confronti di chi si espone. L’accoglienza produce grave sfruttamento anche sugli operatori, così come sugli “ospiti” che vivono nei centri, attraverso l’estrazione di lavoro gratuito. Questo contesto rappresenta uno dei fronti di lotta su cui concentrarsi in futuro, date le enormi contraddizioni che lo attraversano e l’alto grado di alienazione di chi in vario modo lo vive quotidianamente, ma anche l’alto livello di conflittualità dimostrato dagli ‘ospiti’ dei centri sparsi sul territorio nazionale e da alcuni operatori.
La gestione della mobilità avviene, per quanto detto, attraverso molteplici dispositivi – legislativi, di governo (e quindi amministrativi ed economici), ma anche mediatici e simbolici. Nella rappresentazione dell’immigrazione predomina una visione che la dipinge come un fenomeno emergenziale e apocalittico. All’interno di questo immaginario, gli immigrati sono concepiti come creature violente, barbariche e portatrici di malattie, che depredano le ‘nostre’ già scarse risorse, o come vittime senza speranza di aguzzini sanguinari – vedi gli scafisti, i trafficanti e i caporali – e soltanto bisognosi di una passiva e passivante carità, meglio se impartita “a casa loro”. In tutti i casi, i migranti rappresentano persone su cui agire – da irreggimentare, controllare, eventualmente trasformare in maniera coatta in “cittadini modello”, sulla cui pelle il capitalismo che si cela dietro il finto cooperativismo può scatenare le sue più violente manie di subordinazione e sfruttamento.
LA LOTTA È QUI E ORA
Nonostante la criminalizzazione e il ricatto, gli immigrati in Italia hanno dimostrato una grande capacità di reazione rispetto alle loro precarie e sfruttate condizioni di vita. Attraversando il paese, si può osservare un sottile filo rosso che lega molte lotte tra loro, ovvero una consistente ed attiva presenza di una componente straniera principali settori dove è presente un conflitto radicale. A tal proposito, la lotta all’interno dei magazzini della logistica risulta senza dubbio emblematica considerando la forte presenza di immigrati che, grazie alla propria determinazione, hanno vinto e sono riusciti così a coinvolgere anche i loro colleghi italiani nel processo di rivendicazione. Si è cominciato nel 2008, con gli scioperi dei lavoratori egiziani e pakistani nei magazzini della Lombardia. Fino ai giorni nostri, con i blocchi dell’Interporto di Bologna, così come a Roma e provincia, nel casertano e in altre città. E anche in questi casi a mobilitarsi sono soprattutto i lavoratori stranieri, in maggior parte provenienti dall’Africa e dall’Asia.
La stessa consistente presenza d’immigrati si registra all’interno dei movimenti di lotta per la casa. Percorsi questi che hanno saputo dare una risposta immediata ad un bisogno primario. Anche in questo frangente la maggiore presenza di persone straniere è legata alla loro condizione socio-economica, che oltre ad articolarsi attraverso i meccanismi analizzati sopra, li porta anche lontano dalle proprie reti familiari. Occupare una casa diventa spesso l’unica soluzione possibile.
Ci sono altri ambiti dove gli immigrati stanno avendo un ruolo di primo piano. Uno di questi è quello agro-industriale. Anche in questo caso il settore si caratterizza per una considerevole presenza straniera, che è riuscita in parte ad organizzarsi, ponendo nuovamente l’attenzione su territori dimenticati. A tal proposito ricordiamo la rivolta di Rosarno del 2010 ed i suoi successivi sviluppi, attraverso cui i lavoratori africani unitisi in un percorso assembleare sono riusciti ad ottenere il riconoscimento del permesso di soggiorno; e lo sciopero di Nardò del 2011, in cui i lavoratori hanno lottato contro drammatiche condizioni di lavoro, abitative e di vita. In ultimo, le mobilitazioni dei lavoratori delle campagne dell’ultima stagione di raccolta del pomodoro a Foggia hanno portato al riconoscimento da parte del governo degli abusi della questura nelle pratiche di rinnovo dei permessi di soggiorno. Si tratta di una piccola ma importante vittoria nella lotta contro leggi razziste e le loro applicazioni ancor peggiori, parte di un percorso tuttora in divenire che articola la dimensione lavorativa a quella che riguarda lo status giuridico e i diritti di cittadinanza, e che ambisce a raggiungere più importanti obiettivi su cui ci soffermeremo più avanti.
La consapevolezza che gli immigrati possono essere e sono il motore di percorsi di lotta e di rivendicazione di un altro modello di vita, senza sfruttamento e ricatti, spesso non è stata realmente percepita e osservata dai compagni né tanto meno da molti degli immigrati stessi. Pertanto è necessario soffermarsi ad analizzare l’effettivo e possibile ruolo della cosiddetta componente immigrata all’interno dei percorsi di lotta. Oggi all’interno di molti di questi gli immigrati hanno un ruolo di primo piano, non solo in termini numerici ma anche in termini strategici, dimostrando una grande caparbietà e dando un contributo fondamentale nel forgiare e rinnovare (necessità quanto mai impellente) le forme del linguaggio e dell’agire politico.
È fondamentale continuare a sostenere e potenziare questi processi, perché sono le nostre stesse lotte.
E LE PROSPETTIVE FUTURE?
Fino ad oggi gli interventi sul terreno dell’immigrazione – fatte rare eccezioni – hanno adottato un approccio di stampo prevalentemente assistenzialistico-paternalista (vedi l’enorme macchina di volontariato che si è andata articolando intorno ai luoghi d’accoglienza degli immigrati che provano ad attraversare l’Europa); oppure si sono poste in un’ottica anti-repressiva e libertaria, che però non è riuscita ad articolare in maniera efficace, sul piano delle lotte, la dimensione delle libertà civili e politiche a quella dello sfruttamento.
Oggi, accanto alle lotte per la casa e il lavoro è necessario concentrarsi su quella che potremmo definire una lotta contro le leggi e pratiche amministrative che favoriscono la discriminazione e lo sfruttamento. Non si tratta solo dei permessi di soggiorno, che riguardano unicamente gli immigrati, ma anche delle residenze (1) che vede coinvolti tutti, anche gli italiani, soprattutto in seguito alle ulteriori restrizioni introdotte con il cosiddetto decreto Lupi. Entrambe le questioni, per quanto detto, sono strettamente collegate con i percorsi già esistenti su lavoro e casa. Per di più, la presenza di diffusi ostacoli burocratici e amministrativi, unitamente ai continui abusi e discrezionalità delle questure, degli uffici immigrazione e degli uffici anagrafe, molto spesso rende difficile e rallenta lo svilupparsi di percorsi di lotta su altri fronti. Proprio perché l’assenza di una regolarità nel soggiorno rende le persone ancora più vulnerabili ed effettivamente più ricattabili.
Pertanto, riteniamo che sia giunto il momento di intraprendere un percorso politico che si ponga come obiettivo quello di smantellare le forme giuridico-amministrative di inclusione differenziale di cui sopra, attraverso le quali si generano frammentazione, precarietà e conflitto interno alla classe lavoratrice. Le questioni da affrontare sono tante e complesse, ed è necessario quindi confrontarsi con molteplici realtà di lotta per giungere ad una strategia condivisa. A partire dalle lotte già in campo articoliamo qui una serie di proposte per stimolare questo confronto, che viaggiano nella direzione dello smantellamento dell’attuale legge sull’immigrazione, e dei suoi presupposti (ivi inclusa la gestione del diritto d’asilo), e di tutti i dispositivi discriminatori e ricattatori.
I piani rivendicativi che la nostra esperienza di lotta ha fatto emergere sono:
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lo smantellamento dell’istituto della residenza (o del domicilio qualora questo comporti le stesse restrizioni burocratiche) come requisito per l’accesso a diritti e servizi fondamentali, e al permesso di soggiorno. Visto che a tutti, cittadin* italian* e stranier*, indipendentemente da dove troviamo alloggio, è richiesta una sempre maggiore mobilità e flessibilità, per essere sempre a disposizione di chi ci sfrutta, si può e si deve proporre di abolire la residenza! Non si può vincolare la fruizione di diritti fondamentali come la salute ad un istituto come quello della residenza, che fissa le persone ad un territorio quando esse sono costrette a muoversi per lavorare, e che crea discriminazioni basate su classe e provenienza. Proponiamo di iniziare un percorso comune partendo da queste riflessioni, per costruire una battaglia che consenta a chi vive le condizioni più precarie di avere accesso a diritti fondamentali. In questo senso, la nostra proposta consiste nell’implementazione di un sistema di autocertificazione per il domicilio, che sia unico requisito di reperibilità. Riguardo al diritto alla salute, poi, riteniamo che ai lavoratori stagionali questo debba essere garantito a prescindere dai loro spostamenti a seconda delle stagioni di raccolta o altro tipo di mobilità.
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l’istituzione di un permesso di soggiorno unico europeo slegato da qualsiasi vincolo con il contratto di lavoro, e la garanzia del diritto d’asilo attraverso l’istituzione di corridoi umanitari efficaci, abolendo gli accordi di Dublino, come un passo verso lo smantellamento dell’attuale regime di governo della mobilità. Si tratta di un percorso di lotta ancora tutto da definire, per il quale sono necessarie ulteriori analisi ed elaborazioni, e passaggi intermedi. A partire dalle lotte che abbiamo sostenuto in questi anni, siamo giunti ad individuare alcuni fronti da cui cominciare per arrivare a tali obiettivi.
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con preciso riferimento alla questione dei lavoratori agricoli stranieri, e alle misure proposte dal governo negli ultimi mesi per contrastare fenomeni di grave sfruttamento (erroneamente ma non ingenuamente ascritti soltanto a ciò che viene definito con superficialità ‘caporalato’), riteniamo che sia il momento di chiedere una sanatoria per tutti i lavoratori impiegati in questo comparto, inclusi sia coloro che sono in Italia da tempo che gli ultimi arrivati. E’ questo il primo passo, anche se certamente non l’unico, per sconfiggere le dinamiche di brutale sfruttamento a cui lavoratori e lavoratrici sono sottoposte. Ci opponiamo alla logica secondo la quale soltanto chi denuncia, e soltanto se vengono accertate condizioni di ‘grave sfruttamento’ definite attraverso criteri restrittivi ed arbitrari, può avere diritto alla regolarizzazione. Chiamiamo pertanto tutte le realtà che lottano contro lo sfruttamento e la precarietà a sostenere attivamente questa lotta, lanciata dalle mobilitazioni dei lavoratori delle campagne a Foggia ma da estendere ad altri territori, nei prossimi mesi.
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Sempre in relazione allo sfruttamento del lavoro agricolo, stante la forte presenza di richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale tra questo segmento della forza-lavoro, chiediamo che venga interamente rivisto il sistema di ‘accoglienza’ – che al momento, vista la carenza di posti e strutture e la loro pessima gestione, funziona da propulsore per la nascita di ghetti su base razziale/etnica, polmone di forza lavoro a bassissimo costo da cui l’agroindustria attinge a piene mani. Rifiutiamo la logica degli ‘hot spots’, eufemismo per centri di detenzione per richiedenti asilo, che già dai suoi primi mesi di vita si è dimostrato l’ennesima fabbrica di abusi e irregolarità.