Per Chaka, per Bilal, per tutti e tutte le recluse e i reclusi! Mai come ora l’unica sicurezza è la libertà!
La mattina del 7 novembre Chaka Outtara si è tolto la vita. Era rinchiuso nel carcere di Verona, in isolamento, perché, insieme ad altre persone, aveva preso parte alle rivolte nel campo per immigrati presso l’ex caserma Serena, a Treviso, tra giugno e agosto. Proteste avvenute perché, a fronte di poche persone presenti nel campo risultate positive al Covid-19, la direzione aveva pensato bene di chiudere tutti insieme nella struttura, negativi e positivi, senza disporre nessuna misura per mantenere il distanziamento e contenere il contagio. Non è un caso che di lì a un mese da neanche una decina, su 349 persone, si passa a 133 positivi, e dopo un altro mese, nonostante le ripetute proteste i positivi arrivano ad essere 244! Insomma quella che si potrebbe definire la programmazione di un contagio.
Questa a dir poco criminale gestione del (non) contenimento del virus nel centro per immigrati non è esplosa in tutta la sua violenza solo a Treviso, ma ha riguardato tutta l’Italia, da maggio fino ad ora.
Infatti episodi analoghi, con epiloghi meno tragici, sono avvenuti in diversi centri a Roma (dalla Prenestina a Torre Maura), così come nella provincia da Rocca di Papa a Fiuggi. E in tutto il resto del paese: Brescia, Udine, Livorno, Sassari, Agrigento, Amantea, Palinuro, Terzigno, Genova, Milano, Valderice, a Isernia, San Ferdinando (RC), Rosarno, Palazzo San Gervasio. Solo qualche giorno fa un’altra protesta è scoppiata in un centro a Capaccio (Paestum).
Le ragioni delle proteste sono più o meno simili: vengono rinchiusi positivi e negativi negli stessi spazi angusti, senza alcun dispositivo di protezione e il distanziamento necessari, dando luogo a quarantene continuamente rinnovate in virtù dei contagi che inevitabilmente si diffondono. In molti casi non si procede neanche alla somministrazione dei tamponi, più volte annunciati, bloccando di fatto le persone nei centri senza dare spiegazioni, e andando così ad accrescere quel perenne stato di attesa che da sempre caratterizza l’esistenza delle persone immigrate in Italia, che passano mesi, se non anni, nell’aspettare il permesso di soggiorno o il suo rinnovo. Stato di attesa che già prima del covid costringeva a vivere per lunghi periodi in centri insalubri, dove anche i bisogni fondamentali vanno elemosinati, dove la propria vita deve essere sempre e comunque gestita e regolata da qualcun altro, e dove ormai probabilmente non sembra neanche così strano vedere una cinta di militari a presidiare il posto. Alle proteste che si sono scatenate nei centri in questi mesi è seguita una repressione feroce e capillare contro tutte le persone che hanno protestato proprio per salvarsi, laddove riconoscevano bene che le misure “per tutelare la salute” erano quelle che avrebbero portato al contagio assicurato e alla sottrazione dell’ultimo briciolo di autonomia e libertà. Una repressione fatta di caccia all’uomo ogni volta che si verificava una fuga da un centro, denunce, decreti di espulsione e misure cautelari in carcere, che ha lasciato molte persone isolate e altre le ha direttamente uccise.
Se questo è quanto sta avvenendo ed è avvenuto in quelle strutture dove comunque le persone possono entrare ed uscire, la rabbia sale ancora di più nel vedere, ascoltare e leggere quello che accade nei luoghi di detenzione. Non serve infatti immaginare, poiché le persone che sono rinchiuse, i loro affetti e i solidali che sono fuori le mura da sempre raccontano cosa accade in questi posti.
Ad esempio nei centri per il rimpatrio (Cpr), dove continuano le proteste, come nei cpr di Torino e di Milano negli ultimi giorni, le persone vengono obbligatoriamente sottoposte a tampone per poi essere deportate. Ecco che la somministrazione del tampone, che dovrebbe essere esclusivamente una forma di prevenzione e tutela per la propria salute e quella degli altri, si trasforma in una minaccia, poiché sinonimo di deportazione.
La pandemia poi ha accelerato l’allestimento di luoghi di detenzione, come le navi prigioni, note all’Italia già a partire dal 2011, durante la cosiddetta Emergenza Nord Africa. Oggi sono chiamate navi quarantena, dove in teoria vengono rinchiuse le persone appena sbarcate in Italia, così da evitare la quarantena sulla terraferma, ma dove in pratica sono stati trasferiti anche richiedenti asilo positivi o persone già sbarcate da settimane e rinchiuse dentro hotspot sovraffollati. E dalle quali sono partite anche deportazioni dirette.
Attualmente sono cinque le navi predisposte dal Governo, ormeggiate intorno alle coste siciliane e a Lampedusa. Anche qui le rivolte non sono mancate, così come purtroppo anche i morti. Ricordiamo Bilal (purtroppo da nessuna parte è stato possibile trovare il suo nome completo), morto il 20 maggio, mentre cercava di fuggire da questa prigione.
E mentre sulle frontiere marittime venivano allestite prigioni galleggianti, alla frontiera Nord-Est invece, sulla rotta balcanica, a settembre la Prefettura di Udine si adoperava per far trascorre la quarantena ai nuovi arrivati all’interno di due autobus, mettendo a disposizione due soli bagni chimici e una pompa per lavarsi per circa una trentina di persone.
E infine le carceri, spesso tappa obbligatoria di molti immigrati. Come tutti sanno, qui, da marzo, nonostante le incredibili e coraggiose rivolte che hanno attraversato tutto il paese e la feroce repressione che ne è conseguita – non possiamo infatti mai dimenticare i 14 morti ammazzati nei penitenziari di Bologna, Rieti e Modena di cui la quasi totalità erano proprio immigrati – le persone si trovano ancora tutte rinchiuse. Dall’inizio della pandemia ad oggi, solo secondo i dati ufficiali, si contano 2000 contagiati. Inoltre, l’ulteriore isolamento e la paura di morire intrappolati in quelle mura hanno causato le morti “suicide” di oltre 50 persone. Senza dimenticare i morti di covid al loro interno, anche nelle ultime settimane, di cui uno si trovava in regime di 41bis, in totale isolamento. E intanto, mentre continua la strage dentro le carceri, ma anche la ribellione di chi lì è costretto, la scarcerazione dell’assassino del nostro fratello Soumaila Sacko, inizialmente tradotto in carcere per la condanna di primo grado e poi messo agli arresti domiciliari, crea indignazione e sgomento: si chiede che giustizia sia fatta. Noi crediamo che, al di là delle condanne dei tribunali, giustizia sarà fatta solo quando nessuno dovrà più costruirsi baracche di lamiera per vivere in un ghetto, quando nessuno sarà più costretto ad essere segregato in un centro per immigrati, in un campo di detenzione e deportazione, così come in una nave o a bordo di un autobus.
Questo fine settimana, sotto le carceri di molte città d’Italia si terranno presidi in solidarietà con i reclusi e le recluse, portate la vostra rabbia e il vostro amore!
Se siete a Roma sabato 12 dicembre, alle 15.30, si terrà un presidio sotto il Ministero della Giustizia. Battiture e parole in solidarietà con i prigionieri e le prigioniere!