“Lo sfruttamento che nutre il pianeta”: Perché e come NO-EXPO
L’Expo, celebrazione internazionale (e laboratorio) dell’economia neoliberista, incarna le contraddizioni di un sistema basato sullo sfruttamento sistematico dei territori e delle persone, su scala mondiale. Il sistema agroindustriale, tema centrale dell’Expo 2015, è da sempre fautore delle più feroci forme di espropriazione secondo le logiche del mercato globale, il quale prevede una ‘libera’ e veloce circolazione delle merci per alimentare la competitività dei prodotti, giocando al ribasso sui costi di produzione e quindi del lavoro. Dietro la retorica dello “sviluppo” e dell’industrializzazione nella produzione di cibo, lungo l’intera filiera e il suo indotto (dalla raccolta nei campi alla grande distribuzione organizzata, dalla bio-ingegneria alla meccanica e all’industria chimico-farmaceutica) si nasconde un processo di impoverimento per masse sempre crescenti di persone, private dei mezzi per auto-sostentarsi. I passaggi di questa filiera di sfruttamento risultano spesso difficili da decifrare, data la loro complessità ed opacità. Ciò che però risulta chiaro è che chi realmente da questa catena trae profitto sono le grandi industrie produttrici di semi, fitofarmaci, concimi, macchinari; la grande distribuzione organizzata; e le grandi organizzazioni dei produttori, che in molti casi sub-appaltano la gestione diretta del lavoro servendosi di manodopera a bassissimo costo.
In Italia, come in molti altri paesi a capitalismo ‘avanzato’, la forza lavoro impiegata nella filiera è per la maggior parte dei casi straniera, sia comunitaria che non comunitaria. Le condizioni di sfruttamento lavorativo sono quindi strettamente connesse anche alle leggi sull’immigrazione – che in questo paese non hanno subito modifiche, se non di tipo restrittivo, negli ultimi tredici anni -, alle politiche di allargamento dei confini dell’Unione Europea e all’apparato militare-umanitario globale. Questo intreccio economico, politico e normativo è funzionale anche alla ri-produzione di irregolarità e ricattabilità nei luoghi di lavoro, siano essi i campi di raccolta o i magazzini in cui le merci transitano per poi finire nei supermercati. In tutti questi contesti, le condizioni di lavoro di chi le merci le raccoglie, le sposta, le trasforma, le carica e le scarica, sono caratterizzate da uno sfruttamento organizzato tramite diverse forme di intermediazione: da quella più ‘informale’ del reclutamento tramite caporale, alla sempre più diffusa forma di caporalato legalizzato rappresentata dalle cooperative. La crisi economica degli ultimi anni ha reso più rapido un processo di precarizzazione già in atto, di cui manifestazioni come quella dell’Expo in parte sintetizzano gli effetti e in parte promuovono nuove “perversioni” – basti pensare al reclutamento di lavoratori volontari avvenuto a ridosso del grande evento o alle forme contrattuali e di permessi di soggiorno ad hoc applicate per la costruzione delle sue strutture.
In particolare, sono i lavoratori e le lavoratrici delle campagne (braccianti a giornata, ma anche prostitute che seguono i lavoratori nelle stagioni di raccolta) a sperimentare le forme più aberranti di precarietà, di cui il proliferare di ghetti e baraccopoli nella civilissima e progredita Europa è emblema supremo. Come se non bastasse, proprio questa forma estrema di precarietà diventa l’oggetto di una ulteriore messa a valore: è la macchina umanitaria, che dopo avere sradicato masse di persone dalle loro comunità con le guerre preventive le rinchiude in tendopoli, campi e centri di accoglienza. In Italia, i ‘campi’ sono disseminati su tutto il territorio, dal Piemonte alla Sicilia, allestiti e gestiti – in molti casi con l’incuria e la violenza – attraverso ingenti somme di denaro pubblico. Anche per questo braccio ‘compassionevole’ del capitalismo Expo si fa vetrina: tra i partecipanti troviamo in prima fila il colosso umanitario della Caritas a presentare, fra gli altri, i suoi ‘progetti Presidio’ sparsi per lo stivale, i quali – sfruttando anche loro il lavoro volontario, in perfetto stile Expo – allestiscono e gestiscono campi per i lavoratori stagionali nelle campagne e garantiscono i livelli minimi di sopravvivenza necessari perché la macchina agro-industriale non si inceppi.
Però negli ultimi anni i lavoratori, soprattutto stranieri, hanno dimostrato di non volersi piegare a questa logica e le lotte dei facchini nel settore della logistica ne sono sicuramente l’esempio più evidente. Anche i lavoratori precari delle campagne, ultimo o primo anello della filiera, hanno avviato negli ultimi anni processi di auto-organizzazione dal basso nelle zone agricole in cui si concentrano a seconda delle stagioni – come in Calabria, Puglia, Basilicata, Campania, Sicilia ma anche al Nord, in Piemonte. Mentre a Milano si celebrano il progresso e lo sviluppo dell’agroindustria mondiale, nelle campagne i lavoratori lottano per l’applicazione dei contratti provinciali e per l’accesso ad altri diritti minimi, denunciando i costanti abusi delle Questure e delle amministrazioni pubbliche, che con i loro arbitri ingrossano le fila dell’esercito di manodopera “irregolare”.
Per minare ed abbattere questo sistema si deve partire dalla riappropriazione del ciclo produttivo, interrompendolo. La ricomposizione della forza lavoro e l’unione delle lotte è quindi un passaggio necessario, auspicabile ed imprescindibile per poter pensare e praticare una difesa reale dei territori stessi, oltre che delle condizioni di vita delle persone.
Comitato Lavoratori Autorganizzati
Rete Campagne in Lotta