La salute non è un privilegio, nessuno è sacrificabile! – Riflessioni su covid, diseguaglianze, repressione e rivolte.

Da più di dieci mesi ormai le notizie che determinano la nostra mobilità, il nostro lavoro e in gran parte la nostra vita sono statistiche. Numeri di contagi, di morti, di guariti, di tamponi. Le statistiche che scandiscono le nostre giornate e il modo in cui vengono presentate danno l’impressione di un virus “democratico”, che può colpire chiunque, ricchi e poveri, bianchi e neri. Ma è davvero così? Se su internet è facile trovare le cifre per regioni e città, più difficile risulta identificare una mappatura sociale del virus, per capire perché colpisce e uccide di più in alcune aree e meno in altre.

In epidemiologia si definisce pandemia “il propagarsi di un agente infettivo capace di colpire più o meno indistintamente il corpo umano e con la stessa rapidità e gravità ovunque”.
Negli anni ‘90 è stato, invece, introdotto il termine sindemia, concetto che approfondisce la relazione di interdipendenza tra le malattie e le condizioni ambientali e socio-economiche in cui agiscono, suggerendo che si rafforzano e peggiorano reciprocamente.

Il Covid e la sua gestione, in poche parole, non sono uguali per tutt* e con questo testo vogliamo mettere in evidenza le conseguenze della gestione di questa pandemia su quella parte della popolazione di cui si parla di meno: le persone recluse, chi vive nei ghetti, nelle tendopoli e ai margini della società.

Partiamo da qualche importante considerazione di base: l’infezione può avere disuguali conseguenze dirette sulla salute, e non solo quando le diseguali condizioni di salute pre-esistenti predispongono alle conseguenze del COVID-19, come per le persone affette già da patologie croniche (malattie per altro con precisi determinanti sociali alla base).

Le conseguenze sono molto più gravi in caso di esposizione disuguale al rischio di infezione: ad esempio chi ha continuato a lavorare durante la prima ondata, spesso senza dispositivi di protezione e utilizzando mezzi di trasporto super affollati (come i lavoratori delle campagne o i facchini nei magazzini) è rimasto super esposto al contagio, così come le persone costrette a stare in otto e più in una cella nelle carceri e nei CPR, o gli anziani nelle case di riposo. Mentre queste ultime hanno fatto scandalo però, le proteste delle persone recluse continuano ad essere sistematicamente ignorate e represse.

Altro fattore importante sono le svariate barriere all’accesso e all’uso di risposte sanitarie di buona qualità, che limitano il successo della prevenzione e della cura: chi è senza documento ad esempio incorre in infiniti ostacoli nell’accesso al sistema sanitario pubblico, tanto da essere spesso costretto a rinunciarvi. I servizi sanitari iper-aziendalizzati e sempre più privatizzati sono spesso difficili da accedere per immigrati e Italiani, soprattutto per chi vive in zone dove le strutture ospedaliere sono fatiscenti e completamente inadatte ad affrontare la situazione, quando non del tutto abbandonate, e il personale sanitario è scarso e allo stremo.

L’infezione può anche avere disuguali conseguenze indirette sulla salute. Il rinvio di cure per problemi di salute non COVID-19 ha un diseguale impatto su chi non può permettersi di ricorrere a medici e cliniche private: ricorderemo i titoli di giornale della serie “CUP ancora bloccati dal COVID, 200.000 prestazioni in attesa”.

Per questo, anche se il virus si è diffuso partendo dal nord Italia, non si può non collegare la sempre più rapida diffusione e l’allarmante numero di morti in molte zone del sud Italia alle gravi carenze preesistenti del sistema sanitario in quelle regioni. A Gioia Tauro per esempio, città di uno dei porti più importanti d’Italia, manca un ospedale adeguato. Secondo i promotori della recente manifestazione per la riapertura dell’ospedale Giovanni XIII, la Piana dovrebbe avere 650 posti letto e ne conta invece appena 120, mentre in tutta la Calabria mancano 3000 sanitari. A Lucera, in provincia di Foggia, il pronto soccorso è chiuso da 40 giorni, mentre all’Ospedale riuniti di Foggia le file di ambulanze in attesa e l’alto numero di contagi tra gli operatori sanitari fanno notizia e suscitano proteste. Questi sono solo alcuni esempi, ma le notizie locali riportano numerose iniziative di protesta da parte di cittadini e personale sanitario. Non a caso queste sono anche zone agroindustriali in cui si trovano molti insediamenti informali di lavoratori immigrati, che hanno di conseguenza ancora più difficoltà a rivolgersi alle strutture sanitarie. Le cause della mancata ricerca di aiuto e della resistenza diffusa ai tamponi e la quarantena obbligatoria da parte degli abitanti dei ghetti è da ricercarsi proprio nell’abitudine all’abbandono da parte delle istituzioni e alla sfiducia in un sistema sanitario che per chi è straniero e/o povero, è tutt’altro che una garanzia.

E poi, anche il lockdown ha un impatto diseguale sui determinanti sociali della salute: vivere per strada, vivere in contesti familiari violenti e non potervi sfuggire, abitare in ghetti, essere rinchiusi in carceri e CPR, perdere il lavoro, non avere documenti e requisiti per accedere ai pochi sussidi messi in campo, sono tutte condizioni che predeterminano un’esposizione diseguale all’infezione e un maggiore impatto negativo delle sue conseguenze.

Dalla Piana di Gioia Tauro alle campagne del Metapontino e della Capitanata, passando per il Carsertano e su fino a Saluzzo, i lavoratori e le lavoratrici delle campagne nell’emergenza ci sono da sempre: conoscono bene le condizioni di isolamento, di precarietà lavorativa e di vita, nonché quanto sia difficile l’accesso diretto alla salute. In queste condizioni, la gestione della pandemia non è che sale su ferite aperte. È difficile giustificare uno spostamento per lavoro quando non si ha modo di accedere ad un contratto; difficile rimanere chiusi in casa quando si è costretti a vivere in strada o ammassati in abitazioni di fortuna; difficile rimanere inattivi quando si resta completamente esclusi dai già scarsissimi sussidi; difficile attenersi alle norme igieniche quando non si ha accesso all’acqua potabile.

Tutto questo, però, non ha minimamente messo in discussione le loro condizioni di vita e di lavoro, se non, falsamente, con un rapido passaggio retorico che ha dipinto i lavoratori delle campagne come essenziali e meritevoli di una regolarizzazione di massa (mai avvenuta) nonostante le lotte dei diretti interessati che da anni rivendicano come uniche soluzioni: documenti, case e contratti per tutt.

Se durante il primo lockdown i lavoratori delle campagne e la sanatoria che avrebbe dovuto tutelarli erano sulla bocca di tutti, una volta arrivata l’estate di loro ci si è nuovamente dimenticati; proprio mentre i cicli stagionali e la richiesta di manodopera portavano moltissime persone a spostarsi tra regioni in cerca di lavoro e magari di un datore disposto a regolarizzarli, determinando di conseguenza anche un aumento dei contagi. Da agosto in poi i riscontri di casi positivi tra gli immigrati hanno iniziato a moltiplicarsi, e con essi la repressione e il controllo di coloro che da essenziali erano nuovamente passati a criminali ed untori. Abbiamo più volte documentato e denunciato i casi di isolamenti arbitrari di negativi insieme ad accertati positivi o in attesa dell’esito, a volte persino con il sequestro dei cellulari da parte delle autorità e la chiusura totale di tendopoli e campi, lasciando le persone senza cibo né acqua e senza la possibilità di cucinare e permettendo loro di uscire solo per andare a lavorare (perché le braccia servono).

Come in ogni emergenza che si rispetti, l’inattività e la repressione vengono mascherate dalla retorica umanitarista. Come nei contesti di guerra, così in una pandemia. Abbiamo visto in TV come le ONG si siano schierate in prima linea nella guerra al Covid per sopperire alle carenze dei servizi; di poche settimane fa è l’articolo che loda l’intervento sul territorio da parte del poliambulatorio di Emergency a Polistena, in Calabria, regione che è stata al centro di numerosi siparietti politici di responsabilità rimpallate. E così ora il paradosso è che il governo regionale ha chiesto ad Emergency di montare ospedali da campo in tutta la Calabria per gestire i casi più gravi di covid, mentre gli ospedali sono quasi tutti chiusi o con scarsissimo personale.

A Rosarno invece, le ONG Mediterranean Hope e MEDU hanno appena lanciato una campagna di raccolta fondi per comprare tamponi: una nobile causa certo, anche se quanto viene lamentato dai diretti interessati non è la mancanza di tamponi, ma piuttosto il mancato accesso alle case (che ci sono e sono vuote). Sono anni che alle incessanti proteste di chi lavora sul territorio della Piana di Gioia Tauro e continua a vivere in tende e case abbandonate, il terzo settore risponde con interventi e progetti saltuari e scollegati, senza una progettualità concreta e soprattutto senza il coinvolgimento diretto di chi dovrebbe beneficiarne. Chi vive nella tendopoli di San Ferdinando, che due mesi fa era stata dichiarata zona rossa con forti proteste da parte di chi ci si era ritrovato chiuso dentro, oggi dice che la tendopoli è piena, le persone dormono ammassate nella moschea, continua ad arrivare gente dal nord per la raccolta degli agrumi e chi si sente male non si fida della sanità pubblica, spesso si tiene i sintomi o si rivolge alle poche persone amiche disposte a dare una mano.


Nei ghetti la gestione emergenziale della pandemia si inserisce in perfetta continuità con la gestione emergenziale di tutto. Qui il metodo tappa-buchi è quello d’elezione; si cerca di appianare superficialmente le contraddizioni presenti, con la pretesa peraltro di pacificare delle situazioni esplicitamente ingiuste, nascondendo lo sfruttamento e le sue origini. Zero investimenti nella prevenzione e nei rapporti di cura e nessun ripensamento in termini di cura collettiva. Si è solo pronti all’antidolorifico come scelta terapeutica maxima e sempre attenti a mantenere le professionali ferree distanze tra chi “aiuta” e chi “ha bisogno”. Sollecitare la compassione anziché riconoscere diritti.

E mentre sui giornali si loda l’intervento della Croce Rossa che distribuisce pasti (un giorno su tre) agli immigrati, quando loro protestano vengono repressi. Anche questo è lo stato d’emergenza. Forse soprattutto questo. Da un lato l’aspetto securitario è stato particolarmente evidente con l’aumento della polizia nelle strade, statistiche e dati sotto forma di bollettini di guerra giornalmente aggiornati dalla Protezione Civile, opinioni contrastanti e informazioni contraddittorie mescolati a creare un calderone di panico generalizzato e confusione. Tutto allo scopo di mantenere l’autorità e dare l’idea che fosse possibile controllare la situazione. Dall’altro, complice ovviamente la gestione terroristica dell’informazione, ogni attenzione è stata focalizzata su questo maledetto patogeno (neanche più sulla patologia, ovvero su quelle che sono le conseguenze del contatto del virus col corpo umano!), sulla messa in atto di misure di prevenzione e controllo contraddittorie e inspiegate. Il reale viene distorto, e tutto il resto passa in sordina. L’obiettivo è legittimare un’organizzazione sociale inaccettabile. Non si parla d’altro e quando se ne parla tutto è funzionale a distogliere l’attenzione dalle origini dell’evento.

Non riconoscere il fatto che lo sviluppo industriale (anche dell’agricoltura) ha cambiato nel corso degli anni le ecologie locali e il rapporto tra umano e non umano, non ci aiuta a capire quanto questo non sia un caso eccezionale, da affrontare come allarme momentaneo e con le stesse misure che ci hanno portato fin qui. Non a caso, a una maggior urbanizzazione e sviluppo di una catena di produzione e distribuzione di beni non regolamentata, corrisponde un momento di incuria e privatizzazione del sistema sanitario.

Parlare, quindi, di pandemia senza considerare questi elementi, significa avvallarne la gestione emergenziale che ci è stata imposta. Implica non riconoscerne le cause e voler chiudere gli occhi sulle conseguenze, una fra tutte il brutale accrescimento delle disuguaglianze, che questa gestione porta con sé. Tutto il resto è negazione di voci ed esistenze ridotte a numeri di morti, terapie intensive e sopravvissuti. Eppure c’è chi da tempo lotta contro il sistema di iper-sfruttamento che ha condotto tutt fino a qui.

È necessario un cambio di rotta: non basta limitarsi a sperare di raggiungere la fine di questo momento, non basta ed è nocivo agognare la vecchia, insostenibile “normalità”. Non basta ritrovarsi per chiedere più tamponi e celebrare l’arrivo mitico di un vaccino come la fine della crisi. È assurdo continuare a pensare alle lotte come sconnesse tra loro e/o riguardanti solo una parte della società.

In un momento in cui tutto è chiuso sappiamo immaginare cosa aprire? Possiamo immaginare un’idea di salute che vada al di là della semplice assenza di malattia? Riusciamo a pensare al mondo che verrà e rivendicare cosa fare diversamente? Il tempo di agire è ora:

LA SALUTE NON È UN PRIVILEGIO, NESSUNO È SACRIFICABILE!