Per rinfrescarci la memoria: un bilancio di 15 anni di lotte nelle campagne

Il 10 gennaio scorso marcava il quindicesimo anniversario di un momento di lotta autorganizzata di sicura importanza storica, anche se spesso sminuita, noto al grande pubblico come la rivolta di Rosarno. Approfittiamo della ricorrenza, evocata da più parti, per proporre anche noi qualche riflessione, guardando alla storia recente dell’agribusiness Made in Italy dal punto di vista di lavoratori e lavoratrici. Da diverse parti quell’anniversario è stato usato come pretesto per sottolineare come “nulla è cambiato” – “disagio abitativo”, sfruttamento, pessime condizioni igienico-sanitarie e aggressioni razziste continuano a caratterizzare la vita dei lavoratori delle campagne nella Piana di Gioia Tauro (e ovviamente non solo li). A partire dal 2010, anno della rivolta, un susseguirsi di campi di lavoro, installati e poi (una volta trasformatisi in ghetti autogestiti) smantellati, ha punteggiato le stagioni di raccolta degli agrumi. Ultimi esempi in ordine di tempo l’apertura, nel marzo 2024, del fantomatico “Villaggio della Solidarietà” a Rosarno, con relativa chiusura dell’ormai storico campo container di Contrada Testa dell’Acqua, e l’inaugurazione di un nuovo campo container in Contrada Russo, comune di Taurianova, a maggio scorso. Nel primo caso si tratta di una serie di prefabbricati, la cui costruzione è iniziata nel 2012, con cantiere più volte sequestrato, saccheggiato e occupato da persone del posto e infine consegnato ad un ente gestore noto per la sua corruzione, che attualmente riscuote un pagamento dai lavoratori africani a fronte di servizi estremamente carenti. Mentre il secondo, ipocritamente chiamato “Borgo Sociale” e gestito dal Comune di Taurianova, dovrebbe favorire lo sgombero dell’attiguo casolare fatiscente, senza però che si faccia mai menzione del destino che dovrebbe toccare a quegli abitanti (anche loro di origine africana) sprovvisti di documenti, cioè dei requisiti per l’accesso al ghetto di stato.  

Come al solito, la questione dell’irregolarità – e più in generale della precarietà – giuridica per chi vive e lavora in campagna viene perlopiù taciuta, o comunque menzionata come una sorta di calamità, destino ineluttabile, forza maggiore a cui solo un improbabile intervento dall’alto potrebbe mettere fine. Mentre le lotte portate avanti in questi anni – e i loro risultati – vengono completamente censurati. A partire da quella culminata nella giornata del 6 dicembre 2019, quando un blocco congiunto del Porto di Gioia Tauro e della Zona Industriale di Foggia da parte di centinaia di lavoratori, lavoratrici e solidali spinse la Ministra dell’Interno Luciana Lamorgese a dichiarare in Parlamento, pochi giorni dopo, l’intenzione del governo di promuovere una sanatoria proprio per i lavoratori delle campagne. La ghiotta occasione della pandemia permise poi di far passare quella sanatoria come una necessità legata alla contingenza, per permettere ad un settore essenziale come quello agricolo di continuare la produzione nonostante la chiusura delle frontiere. Come è ovvio, una sanatoria non risolve certo il problema dello sfruttamento, soprattutto se, come è stato, costruita per rendere la vita impossibile a chi cerca di regolarizzarsi. E però, stando agli ultimi dati disponibili, attraverso quella sanatoria – strappata con anni di lotta ignorata dai più e ostacolata in vari modi da chi sulle spalle di chi lavora in campagna ha costruito carriere – circa 130mila persone hanno ottenuto un documento. Non è il mondo senza frontiere che sogniamo e per cui lottiamo, ma sicuramente rappresenta un miglioramento significativo nelle condizioni di vita di molte persone.

D’altro canto, la giornata di lotta del 6 dicembre ha portato con sé anche una scia di repressione: una denuncia per associazione a delinquere nei confronti di 6 persone, poi decaduta; 10 procedimenti penali per un totale di 20 imputat* tra lavoratori e solidali, con capi di imputazione che vanno dall’interruzione di pubblico servizio, alla manifestazione non autorizzata, passando in due casi per il rifiuto di fornire le generalità, e in uno per lesioni personali e resistenza a pubblico ufficiale (allo stato attuale 3 risolti con il proscioglimento, uno con una condanna a 8 mesi nei confronti di un lavoratore, e gli altri ancora in corso); 19 fogli di via e 13 multe da 1000 euro per blocco stradale. Pur non amando la ragioneria delle beghe giuridiche né il piagnisteo o l’eroismo militante, crediamo sia bene mettere in fila i fatti, perché di questa lotta e delle sue conseguenze non solo non hanno parlato i media, com’è ovvio, ma nemmeno ci è mai riuscito di fare un reale bilancio tra compagn*.

Dopo quella giornata abbiamo continuato a batterci, cercando nuovamente di costruire un fronte ampio di lotta contro le politiche migratorie italiane ed europee e continuando a sostenere le battaglie di chi vive nei ghetti – più o meno ufficiali – per migliori condizioni di vita e di lavoro, contro gli abusi delle questure e la violenza delle istituzioni in generale. È un dato di fatto che costruire questo fronte sia un’impresa ardua e che le ultime strette legislative su immigrazione e “sicurezza”, insieme alle strumentalizzazioni, abbiano spesso causato timori ed arretramenti, raggiungendo in qualche caso il loro obiettivo. Ma è impossibile spiegare queste strette repressive, specialmente contro chi è sprovvisto dei documenti UE, senza guardare ai decenni di lotte che le hanno precedute. Se oggi, per fare un esempio a noi vicino, la questura di Foggia deporta come mai ha fatto in precedenza, e con un accanimento maggiore rispetto ad altre, chi non ha il permesso di soggiorno (40 rimpatri coatti eseguiti nel 2024, e una pioggia di altre misure, anche detentive), a nostro modo di vedere si tratta anche di una reazione alla crescente consapevolezza che ha portato i lavoratori e le lavoratrici ad organizzarsi. Questo vale non solo per la battaglia contro il razzismo di stato, fatto dei mille ricatti legati al permesso di soggiorno, ma anche e soprattutto rispetto alle condizioni di lavoro, che a quei ricatti sono legate. È noto che grazie alle lotte le paghe dei braccianti, nel foggiano, sono più alte della media, e questo forse non va giù a chi comanda nel settore agricolo e ai loro rappresentanti istituzionali. Si tratta di una dinamica collaudata, una storia antica.

Per contrastare questa crescente brutalità, crediamo sia necessario ripartire dalla consapevolezza di quel che è stato, dei piccoli e grandi avanzamenti che si è stat* in grado di ottenere attraverso lotte basate sulla solidarietà e le relazioni quotidiane, in cui tattiche e strategie si costruiscono insieme, passo dopo passo, senza ricette preconfezionate, condividendo conoscenze. Mai come oggi la lotta contro il razzismo e lo sfruttamento parla a tutt* noi: strategie repressive e securitarie sperimentate in primis su migranti, pover*, soggetti discriminati si allargano a chiunque provi a reagire contro un sistema opprimente. In queste lotte continuiamo a credere e a riconoscerci.