Architettura migrante e meticcia… o di un’iniziativa coloniale, grottesca e controproducente: l’ “Hospital(ity) School” a San Ferdinando
Apprendiamo che alcuni giorni fa, all’ingresso del campo di lavoro di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, è sorta una strana struttura. Gli iniziatori del progetto, ideato e pubblicizzato da tempo, l’hanno chiamata Hospital(ity) School, perché dovrebbe servire al contempo come ambulatorio, scuola e sportello legale della Cgil con la collaborazione di Sos Rosarno. La struttura è stata costruita in Trentino, grazie al lavoro di volontari italiani e – splendida idea, in linea con le direttive di Minniti – di richiedenti asilo.
Rimettiamo questa iniziativa nel suo contesto: lo scorso agosto, nonostante le proteste di lungo corso degli e delle abitanti dei vari insediamenti della Zona Industriale di San Ferdinando, con la complicità di diversi soggetti del mondo associazionistico e sindacale è stato inaugurato un ennesimo campo di lavoro, riservato a chi è in possesso di un regolare permesso di soggiorno e controllato con sistemi di rilevazione biometrica. Il campo rappresenta il punto sinora più alto della politica di controllo e contenimento portata avanti in questi anni dalle istituzioni contro i lavoratori e le lavoratrici migranti, a cui in questi spazi non è permesso avere una vita sociale, affettiva, sessuale libera e autodeterminata. Nè questi spazi evitano il proliferare di insediamenti informali e privi di qualsiasi infrastruttura e servizio, anzi lo incoraggiano, come dimostrano i fatti.
Non ci stancheremo mai di ripeterlo: questa situazione di sfruttamento, di povertà estrema e di sempre maggiore controllo e disciplinamento delle persone migranti è il risultato, da un lato, di politiche specifiche, e dall’altro della ricerca di profitto che struttura le filiere agro-industriali globali e che quelle politiche sostengono. Non ha niente di naturale, né si cura con la carità: si distrugge, con le lotte.
Ma chi ha progettato e voluto l’Hospital(ity) School, di queste lotte che vengono portate avanti da anni, in maniera autodeterminata, non vuole sapere nulla. Del resto sembra anche ignorare che le condizioni di vita terribili nella tendopoli e in tutta la Piana non sono la conseguenza di un terremoto, a cui rispondere con simpatiche casette in legno da inviare qui e lì, per mettersi in pace con la propria coscienza di ricchi, come la Regione Trentino fa spesso in caso di disastri naturali. Eppure, la razionalità sembra la stessa: è il modello Protezione Civile, basato sulla militarizzazione dei territori, sulla produzione di dipendenza e sul controllo.
Questo “dono” è, semplicemente, ridicolo. I reali bisogni delle persone migranti restano sempre quelli, ce lo ripetono da anni: documenti, contratti, una casa vera. Tra queste rivendicazioni e la “polifunzionalità” della struttura, che peraltro sopperisce in modo assolutamente insufficiente alla mancanza di servizi sul territorio, di competenza istituzionale, c’è una distanza incolmabile. Parlano di architettura meticcia, ma non è altro che architettura coloniale. Coloniale due volte: nel gesto benevolo della ricca regione a statuto autonomo del Nord che fa un regalo alla povera Calabria, colpita dalla catastrofe dell’invasione degli Africani. E nella falsa generosità verso le persone migranti che vivono lì, una generosità che puzza di carità missionaria in stile impero. La storia ce lo insegna: l’umanitarismo va sempre a braccetto con la conquista e lo sfruttamento, serve a renderli più sopportabili, li legittima: lo stesso discorso vale anche per la cosiddetta accoglienza e per i campi “umanitari” in Calabria e in tutta Italia.
Così il dispositivo di controllo della tendopoli dovrebbe diventare più “umano” grazie alla costruzione di una scuola-ospedale-sportello sindacale, con il placet del comune di San Ferdinando che così può fregiarsi di un’iniziativa che lo scarica di qualsiasi responsabilità. Meglio però proteggerlo dagli e dalle abitanti attorno: chissà che non gli venga l’idea di usarlo per viverci dentro, invece che nelle tende o baracche in cui sono costrette-i.
Fino a qui, non c’è granché di nuovo. Ma la creatività non ha limiti: per costruire la struttura hanno pensato di mettere al lavoro, ovviamente non retribuito, un gruppo di richiedenti asilo inseriti nell’accoglienza trentina. Un vero colpo di genio, due piccioni con una fava. Si abbellisce il campo di lavoro, e allo stesso tempo si “rendono utili” i migranti improduttivi, in attesa dei (sempre più improbabili) documenti, per ringraziare della splendida accoglienza ricevuta e per educarli ad avere paghe da fame per il resto della loro vita, magari proprio in quelle campagne dove oggi lavorano altri migranti come loro. Come vogliono Minniti e tutti i burocrati come lui, al servizio del capitale. Una catena di sfruttamento e di menzogna che attraversa la penisola. Per completare il quadro è importante ricordare che quasi tutti i “costruttori volontari” vivevano in un Cas a Rovereto, l’ex Hotel Quercia, chiuso qualche settimana fa perché non a norma. E da lì, senza nessun preavviso, sono stati trasferiti in alcuni containers a Trento (!).
Ancora una volta siamo accanto a chi da anni lotta per documenti, contratti di lavoro e case reali. Ancora una volta non crediamo alle soluzioni facili e alle promesse menzognere, ma piuttosto ci appare sempre più chiaramente come dietro la facciata buonista e umanitaria si celi la violenza coloniale e lo sfruttamento neoliberista.
Continueremo a supportare e sostenere chi da anni si autorganizza nei ghetti e nei campi di lavoro, continueremo a stare dalla parte di chi lotta.
WE STILL NEED YES!