Nei campi di lavoro le lotte continuano – e noi che stiamo facendo?

Campi di lavoro, nuovi e vecchi, di diversi tipi e dimensioni, e gli immigrati che sono costretti a viverci dentro, oramai in tutta Italia, che fine hanno fatto? O meglio come sono e diventano funzionali ai discorsi e alle “prese di posizione” degli ultimi mesi – impregnati ancora di più, ahi noi, di qualunquismo, paternalismo, colonialismo e ipocrisia (non dimentichiamo che siamo in piena campagna elettorale)? Pensiamo soprattutto al Sud Italia, dove questi campi sono nati e vengono perfezionati da istituzioni e padroni, arrivando a celebrare quella che si potrebbe definire la terza (e definitiva) accoglienza per chi è costretto a restare per farsi sfruttare, ma questi contesti oramai si incontrano dovunque per tutto il bel paese.

In Puglia, nonostante le numerose violenze delle istituzioni sia verso gli immigrati, assediati, deportati, uccisi, silenziati e manipolati, che nei confronti di chi ne sostiene i percorsi di lotta e porta solidarietà e attenzione, i percorsi di autodeterminazione e autorganizzazione continuano – nonostante le rinnovate minacce di sgombero e distruzione delle baraccopoli dove vivono; le numerose retate e perquisizioni nei quartieri frequentati soprattutto da immigrati, e i continui posti di blocco lungo le strade della provincia; le durissime condizioni di vita, per cui si rischia di morire sul lavoro o per avere l’allaccio alla corrente, o di ammalarsi per le catastrofiche condizioni igenico-sanitarie, peggiorate negli ultimi mesi per il mancato prelievo dei rifiuti (soprattutto in alcune località come Borgo Mezzanone); le sporadiche e tutt’altro che appetibili possibilità lavorative, in agricoltura come in altri ambiti e la recente riapertura del CPR (ex CIE) nella vicina Bari, che renderà più facile la deportazione come conseguenza dei continui controlli dei documenti. Nonostante tutto, però, le persone che vivono nei ghetti continuano a lottare: mantengono un canale di comunicazione con la Questura di Foggia, che dopo anni di lotte concede la possibilità di ottenere un permesso di soggiorno; ogni settimana, nei diversi insediamenti, si tengono meeting dove si discutono insieme i prossimi passi e dove nascono nuove possibilità di relazionarsi, anche nel rapporto tra uomini e donne, dove queste ultime hanno un ruolo sempre più attivo nell’organizzazione. In un contesto del genere, è oramai chiaro che l’unico modo possibile per uscire dalla situazione di marginalizzazione e sottomissione in cui si è costretti a vivere, è quella di organizzarsi e lottare!

In Calabria lo scenario è in parte analogo: negli ultimi mesi la repressione e la militarizzazione delle strade sono state le uniche reali risposte che lo Stato ha dato alle rivendicazioni di chi vive nei ghetti di San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro, e a chi sostiene la loro lotta. Dopo i numerosi tentativi – cominciati questa estate – di sgomberare gli abitanti dalla vecchia tendopoli e deportarli in un nuovo campo di lavoro, anticipati da numerose retate e controlli non solo delle persone ma anche delle loro abitazioni, la situazione ad oggi è gravemente peggiorata. Infatti, come è stato più volte preannunciato dagli abitanti stessi, la vecchia tendopoli è rimasta aperta, grazie alla resistenza di chi vi abita, arrivando nuovamente a contenere oltre 2000 persone; anche la (oramai non più) nuova tendopoli è colma fino all’inverosimile e, nonostante i 700 milioni di euro spesi, risulta priva dei numerosi “servizi e comfort” decantati da istituzioni, sindacati ed associazioni; infine anche la fabbrica Rizzo, adibita a riparo emergenziale dopo l’incendio dello scorso luglio, è diventata la casa di centinaia di persone. Senza dimenticare ovviamente gli altri capannoni sparsi nella zona industriale del comune calabrese e in altre zone della Piana, che da anni oramai sono l’unico luogo di vita per tantissimi immigrati. Per non parlare del rinato immobilismo di Questura e comuni nel rilascio dei documenti e nell’espletare le pratiche in generale, che imprigiona ancora di più le persone.

Ecco, questi luoghi – come viene detto da tempo – ben descrivono le società di un futuro prossimo, e in parte di un presente già in corso: le persone più povere e marginalizzate sono costrette a vivere in campi, dove tende, container o prefabbricati sostituiscono le case, in zone periferiche, lontane da servizi e possibili luoghi di socialità e incontro. Condizioni queste, eccezionalità e isolamento, che permettono l’attivazione di numerosi meccanismi di profitto, non solo perché in questo modo l’esercito di braccia a basso costo è concentrato tutto insieme nello stesso luogo, ma anche perché, oltre ad essere un business in sé, la creazione di questi campi produce un indotto di servizi e “professionisti” che favoriscono la circolazione di altri soldi ancora. Queste condizioni disperate risultano alquanto funzionali a quanto sancito nel Decreto per lo Sviluppo del Mezzogiorno varato all’inizio della scorsa estate, nel quale vengono istituite le ZES (zone economiche speciali), nell’ottica di promuovere la produttività del territorio, dove le migliaia di persone che vivono sparse nei numerosi ghetti costituiscono la forza lavoro ideale: a basso costo e senza nessuna forma di tutela e garanzia. È infatti proprio nelle zone dove dovrebbero istituirsi le ZES che insistono i principali campi di lavoro di questo paese, ora sotto l’amministrazione straordinaria di commissari speciali nominati con lo stesso decreto. A riprova che ZES e campi di lavoro sono, nell’ottica del governo, connessi sta il fatto che parallelamente agli ultimi controlli effettuati nella “vecchia” tendopoli di San Ferdinando, che hanno portato a sequestri e denunce, si è svolto in Prefettura a Reggio Calabria un incontro atto a “verificare la fattibilità di percorsi da attuare, a breve e medio termine, per assicurare la compatibilità della ZES con le aree di accoglienza”, ed in cui si è parlato della “sistemazione logistica dei migranti”.

In maniera meno esplicita, questo modello sta prendendo piede anche in altre parti del paese. D’altronde è proprio delle ultime settimane la notizia che il comune di Roma, per coloro che sono rimasti senza casa in seguito agli sgomberi dei mesi scorsi (da Piazza Indipendenza a Cinecittà), prevede di allestire dei moduli abitativi prefabbricati (e prodotti dal colosso multinazionale IKEA) distribuiti nella periferia della città e nella provincia. Senza ovviamente dimenticare le centinaia tra centri, campi e tendopoli dove le persone vengono costrette all’accoglienza forzata. Anche in questi casi si tratta di luoghi isolati e mal collegati, dove le relazioni con l’esterno sono praticamente impossibili. Altri ancora invece si trovano in posizioni strategiche rispetto al reclutamento di manodopera sempre pronta e a basso costo, come accade in provincia di Foggia.

Insomma il quadro è tragicamente chiaro e le prospettive sono devastanti. In Italia, come nel resto d’Europa e non solo, è in corso una guerra a bassa intensità, ma che fa morti tutti i giorni. Non si tratta però soltanto di una guerra tra istituzioni e subalterni: le persone sono in guerra le une contro le altre. A dividerle, oltre alla diffusa precarietà lavorativa e di vita, c’è la paura “dello straniero”, alimentata da una pervasiva e costante propaganda xenofoba. Ciononostante c’è chi continua a lottare tutti i giorni, e chi lotta sono soprattutto gli immigrati. Forse perché sanno bene che hanno già perso quasi tutto, e solo alzando la testa possono prendersi quello che desiderano e di cui hanno bisogno.

Davanti a uno scenario del genere l’unica cosa da fare è uscire di casa e conoscere e unirsi a chi le strade le blocca tutti i giorni. Queste lotte non rivendicano solo la possibilità di muoversi senza il vincolo di un documento, ma rivendicano soprattutto l’esigenza di una vita normale, con una casa che si possa effettivamente definire tale, la possibilità di incontrare persone e fruire di luoghi di socialità, un lavoro pagato. Quindi queste persone stanno lottando anche per noi “cittadini/e”.

Ancora una volta e sempre più forte sosteniamo e gridiamo WE NEED YES!