Violenze e morte alle frontiere, razzismo quotidiano, segregazione. Rispondiamo a tutto questo
Negli ultimi decenni le vite delle persone immigrate sono state al centro del dibattito europeo e non solo. Questa parte di popolazione infatti, senza volerlo, si è trovata ad avere un ruolo di primo piano sia a livello mediatico sia considerando gli interventi normativi messi in campo, all’interno di una visione ben precisa, che la vuole sfruttata, controllata e marginalizzata.
Tale tendenza, che coinvolge tutta l’Europa (limitandoci ad osservare questa parte di mondo), nel corso del tempo ha contribuito da una parte ad alimentare tra gli autoctoni un atteggiamento prevalentemente diffidente e razzista, dall’altra ha orientato le politiche europee e nazionali sempre più nella direzione di sfruttare ed attaccare costantemente le vite delle persone immigrate, dal momento dell’arrivo e per tutta la loro permanenza.
In questo quadro generale l’Italia, soprattutto per la sua posizione al centro del Mediterraneo, una delle porte d’accesso all’Europa, ha investito ingenti risorse economiche ed umane nella gestione degli ingressi, i cui devastanti risultati sono ampiamente noti. Uno per tutti è il fatto che la rotta del Mediterraneo centrale è considerata la più pericolosa al mondo, per l’alto numero di persone che muoiono nell’attraversarlo. Senza dimenticare che, grazie agli accordi portati avanti con i governi libici, con il pieno sostegno dell’Unione europea, la vita di migliaia di immigrati è stata messa nelle mani della sedicente guardia costiera libica, che li tiene segregati per lunghi periodi, in condizioni igenico-sanitarie devastanti, sottoponendoli a numerose torture e violenze, nell’attesa di prendere il mare per provare a raggiungere l’Europa.
Perché incontrarsi
Nel corso degli anni però questo modello è stato spesso attaccato e sabotato, in modi diversi e da più parti. Le persone immigrate hanno protestato e lottato dovunque: per la casa, occupando luoghi abbandonati e resistendo all’interno dei ghetti; nei luoghi di lavoro, dai blocchi davanti ai magazzini della logistica, a quelli di fronte agli impianti di trasformazione nel comparto agricolo; per la libertà di movimento e autodeterminazione, dalle continue proteste nei centri di accoglienza, alle rivolte nei campi di deportazione, spesso concluse con la distruzione di buona parte degli stabili e la fuga dei prigionieri.
Anche tant compagn e solidali si sono messi di traverso, provando ad inceppare questo sistema di morte e spesso riuscendoci. Il primo pensiero non può che andare a chi è stat imputat nel processo per il Brennero, che con coraggio e amore nel 2016 si è opposto alla costruzione di un ennesimo muro, tra l’Italia e l’Austria, che fino ad ora non è stato costruito.
Le campagne italiane, dal Sud al Nord, sono state attraversate da numerose lotte portate avanti dalle persone immigrate, che in quei territori vivono e lavorano: dalla Piana di Gioia Tauro in Calabria, passando per la provincia di Foggia e quella di Cuneo, solo per menzionarne alcuni. Qui, negli ultimi quindici anni, grazie ad una protesta costante e determinata, fatta di manifestazioni, scioperi, resistenze agli sgomberi e blocchi stradali sono stati ottenuti risultati concreti: dall’ottenimento dei permessi di soggiorno, all’accesso alle residenze presso i comuni, fino ad evitare il trasferimento forzato all’interno di campi container in mezzo al nulla o la distruzione di luoghi di vita, che seppur precari godono di una certa autonomia. In questo contesto nel corso del tempo nasce e si articola, in modo del tutto informale, la Rete Campagne in Lotta, un gruppo di persone di diverse provenienze, immigrate e non, che si organizzano insieme su differenti terreni di rivendicazione.
La forza di questo percorso non è data solo dal fatto di aver ottenuto qualcosa di necessario che ha cambiato il corso di molte vite. La più grande energia infatti è scaturita dalla qualità delle relazioni che si sono costruite, perché ci siamo mischiati davvero, nei nostri rapporti abbiamo tenuto lontano dinamiche di potere nelle quali è molto facile cadere, nero e bianco, povero e non povero. Abbiamo superato paure e pregiudizi creando amicizie e alleanze inimmaginabili per riuscire alla fine a riunirci e ragionare insieme su come cambiare l’ordine delle cose. Abbiamo dato anche spazio ad una reale auto-narrazione di quello che accade, tenendo il più possibile lontano quell’immaginario dove se un immigrato parla o lo fa per difendersi o per autocommiserarsi.
Forti di questa lunga esperienza, che ha cambiato le nostre esistenze offrendoci punti di vista mai esplorati e che ci hanno permesso di trovare altri modi per attaccare il sistema di sfruttamento e controllo in cui ci troviamo, oggi sentiamo l’urgente bisogno di tornare a confrontarci su un piano più ampio, coinvolgendo persone da ogni parte del paese, per condividere ognuno il proprio ragionamento e contesto di lotte. Vogliamo capire insieme quali sono i principali punti da attaccare, prima di tutto per eliminare gli ostacoli posti alla libertà di movimento che va dall’attraversamento di una frontiera all’accesso a servizi e tutele. Vogliamo condividere e diffondere le pratiche che ognuno di noi mette in campo per rispondere al razzismo quotidiano e pensarne di nuove. Vogliamo creare un coordinamento non solo di intenti e visioni, ma soprattutto di azioni. Vogliamo continuare a dare spazio ad una vera auto-narrazione oltre ogni luogo comune.
La gestione dell’immigrazione in Italia
Nonostante oltre quarant’anni di storia migratoria nell’Italia di oggi è ancora forte la narrazione del “noi e loro”, senza dubbio alimentata dalle scelte degli apparati istituzionali che non hanno voluto garantire una stabilità giuridica delle persone che provengono da altri paesi. L’Italia, camera di decompressione dei flussi d’ingresso in Europa, presenta un quadro normativo unico nello scenario europeo in quanto a limitazioni: se sei una persona che proviene da un altro paese puoi aspettare anni prima di vederti riconosciuto un titolo di soggiorno. Questo assetto nel corso dei decenni ha prodotto isolamento e marginalità, poiché senza documenti validi la libertà di movimento è profondamente limitata, ogni azione, anche la più banale – come uscire di casa per fare una passeggiata – può diventare pericolosa se ci si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato, rischiando anche l’arresto o la deportazione.
In questo solco del “noi e loro”, divenuto sempre più profondo, si sono mossi tutti gli interventi normativi messi in campo nel corso degli ultimi anni. Innanzitutto è utile ricordare che a partire dal 2011 si sono ridotte drasticamente le possibilità di entrare regolarmente in Italia ed ottenere un permesso di soggiorno; l’unica modalità è quella di presentare domanda di protezione internazionale, mentre per anni gli ingressi per lavoro sono stati limitati a pochi posti, per prestazioni di carattere stagionale. Quindi la quasi totalità delle persone che partono sono costrette ad un ingresso ed una permanenza irregolari, con tutto ciò che ne consegue. Negli ultimi tempi poi anche la richiesta d’asilo ha subito delle forti restrizioni e i diversi governi che si sono alternati, da Minniti (2016) in poi, hanno cercato di ridurre la platea di coloro che possono presentare richiesta di protezione internazionale stilando una lista, che è destinata ad allungarsi, di paesi d’origine definiti sicuri – se si proviene da uno di questi contesti presentare domanda d’asilo è sempre più difficile. Si tratta per lo più di paesi a forte pressione migratoria che presentano dei flussi significativi verso l’Italia: un modo, quindi, di rendere irregolari fette sempre più ampie della popolazione immigrata.
Il governo attuale, con il decreto Cutro (2023), si muove nella stessa direzione riducendo ulteriormente le possibilità d’ingresso regolare e di ottenimento di un titolo di soggiorno una volta in Italia. Contestualmente è stato introdotto un decreto flussi per lavoro non stagionale, distribuito sul triennio 2023-2025, ma presenta numeri contingentati e procedure complicate, insomma un’altra beffa, che bloccherà la vita di migliaia di persone.
In questo quadro vanno anche considerati i più recenti interventi messi in campo nella gestione delle frontiere esterne, come gli accordi con il governo tunisino e albanese. Nel primo caso si contano già centinaia di morti e dispersi nel deserto, da quando è iniziata la cacciata delle persone di origine sub-sahariana. Ma ancora una volta gli intenti vengono smentiti dalla realtà, poiché i numeri degli ultimi sbarchi registrati nel 2023 superano di gran lunga quelli degli anni precedenti. Nel secondo caso l’Italia e l’Albania hanno creato un precedente unico, una nuova eccezione detentiva e di dubbia natura giuridica, istituendo sul suolo albanese due centri per il rimpatrio dedicati a coloro che provano a raggiungere le coste italiane.
Inoltre, a partire dalla seconda metà degli anni 2000 in fino ad oggi, l’attacco alle persone immigrate è passato anche attraverso l’attivazione di un’articolata serie di dispositivi che, in diversa misura, le colpisce e le sanziona principalmente non per quello che fanno ma per quello che sono, persone non nate in Italia. A partire dal pacchetto sicurezza del 2009, dell’allora ministro Maroni, che introduce il reato di clandestinità, fino ai decreti Salvini del 2018/2019, che non solo eliminano le poche garanzie previste per le persone immigrate, come l’accesso alla residenza per i richiedenti asilo, e prolungano i tempi di detenzione all’interno dei campi di deportazione (CPR); ma allo stesso tempo attaccano chi porta loro sostegno, come le navi delle ONG e le manifestazioni in strada, introducendo nuove sanzioni e reati. Fino ad arrivare alle ultime proposte che vanno a colpire in modo sempre più puntuale qualsiasi forma di dissenso e protesta, con una particolare attenzione a quelle che avvengono all’interno delle carceri o nei campi, siano essi centri d’accoglienza o di detenzione, dove si trovano esclusivamente persone immigrate. Questo ulteriore impianto repressivo ovviamente non dimentica di punire, con pene altrettanto esemplari, anche coloro che sostengono chi si ribella in questi luoghi di internamento.
e nel resto d’Europa
Gli altri contesti europei non riportano situazioni migliori, anzi, in generale si sta assistendo ad una rinnovata alzata di muri, non solo simbolica. Sicuramente la crescente presenza di schieramenti di partiti di destra e xenofobi, accanto a partiti e coalizioni di sinistra che da sempre hanno avuto un approccio repressivo nella gestione dei flussi migratori, sta contribuendo ad una nuova stagione di politiche restrittive. Da una parte infatti, in molti paesi europei, come la Francia, la Germania, l’Inghilterra e l’Italia, sono stati adottati provvedimenti che limitano ulteriormente le possibilità d’ingresso regolare e le modalità per poter restare, per coloro che provengono da altri paesi. Dall’altra parte la guerra in Ucraina ha mostrato chiaramente come la mobilità delle persone viene ostacolata o incentivata a seconda degli interessi economici e politici nel corso delle diverse fasi storiche. Se infatti l’Unione europea, con l’Italia in primo piano, ha subito aperto i propri confini per permettere l’ingresso di migliaia di persone di nazionalità ucraina, grazie a delle procedure d’urgenza per cui è previsto anche il rilascio immediato di un permesso di soggiorno. Contestualmente il diritto alla fuga non è stato concesso alle persone di altre nazionalità che volevano lasciare il paese, come i numerosi studenti provenienti dall’Africa sub-sahariana, in particolare dalla Nigeria, a cui è stato impedito di andarsene. Allo stesso tempo però il conflitto ha portato anche alla chiusura di diverse frontiere, soprattutto nella parte orientale, tra la Polonia e l’Ucraina, dove solo i camion carichi di merci ogni giorno riescono a passare il confine. Così come tra la Russia e la Finlandia, dove sono stati chiusi quasi tutti i valichi di frontiera e le persone sono costrette alla fuga a bordo di biciclette, per chilometri, nella neve alta e con temperature sotto lo zero.
La violenza della gestione delle frontiere – interne ed esterne, formali ed informali – nel corso del tempo ha prodotto in tutta Europa il proliferare di accampamenti, dove migliaia di persone sono costrette a vivere ammassate. Alcuni si trovano vicino alle zone di confine, sorti per contenere coloro che provano ad entrare illegalmente in un altro paese, come il ghetto di Calais, la jungle, da dove ancora oggi le persone provano a raggiungere l’Inghilterra. O quelli meno noti che costellano i confini ad Est, ad esempio tra la Serbia e l’Ungheria: anche qui migliaia di persone vivono accampate dentro una foresta tentando l’attraversamento verso l’Unione europea, mentre cercano di sfuggire alla violenza della polizia, il game, come viene chiamato in gergo. E poi ci sono quella miriade di accampamenti e ghetti, che si trovano nelle periferie delle grandi città o in aree isolate come le zone industriali o le campagne, lontane dai centri urbani. Anche questi sono luoghi di frontiera dove le persone senza documenti, senza reti sociali, senza soldi si rifugiano, sapendo di poter contare sul supporto degli altri. L’Italia in particolare è attraversata da numerosi insediamenti informali che in molti casi sono diventati bacini di manodopera a basso costo.
Quali prospettive e in che modi
Davanti a tutto questo è ora di avere un altro sguardo, un agire diverso. E’ ora di costruire percorsi che partono da relazioni reali e che non vadano a riprodurre le dinamiche di potere e prevaricazione, che sono quelle che combattiamo ogni giorno. Nella lotta contro la violenza dei confini, contro il razzismo e lo sfruttamento quotidiano è quanto mai necessario creare rapporti dove nessuno si deve sentire schiacciato e controllato. In una società che ci vuole gli uni contro gli altri il primo gesto di ribellione e rottura parte proprio dal tipo di rapporti che si creano con compagn di vita e di lotta.
Davanti a tutto questo è ora di mettersi davvero in discussione, come persone nate qui, utilizzando il nostro privilegio per mettere in evidenza e spazzare via la prevaricazione e la marginalità. Come persone non nate qui, trovando strade comuni e il più inclusive possibili per opporci a questo sistema fatto di frontiere nelle quali veniamo imprigionat per essere sfruttat al massimo.
E’ necessario costruire relazioni ed azioni che non solo contrastino il sistema delle frontiere, esterne ed interne, permettendo il raggiungimento di un pieno riconoscimento giuridico per chi proviene da altre parti del mondo. Così come è urgente continuare ad organizzarsi e battersi per sostenere tutti gli spazi di vita, socialità e confronto che abbiamo costruito nel corso del tempo, offrendo una concreta alternativa all’esistente. E creandone di nuovi, dove le relazioni ed alleanze che abbiamo realizzato possano trovare spazio e supporto.
Le persone in Palestina, oggi più che mai, ci stanno mostrando la loro incredibile volontà e forza. La resistenza, nelle sue numerose modalità e nei diversi contesti da cui si muove, nel difendersi e rispondere all’attacco, in primis di Israele (e a seguire di Stati Uniti, Inghilterra, Italia e altri ancora), sta cercando anche di abbattere quello stesso sistema di sfruttamento, violenza e morte che, con le dovute differenze, ci sta distruggendo a casa nostra. Davanti a tutto questo il nostro orizzonte deve essere il più ampio possibile, traendo ispirazione e coraggio dalla loro grande determinazione.
Per la libertà di tutt
Per la libertà della Palestina