Tende blu, bagni chimici, perimetro delimitato da una rete di recinzione, un piccolo spaccio alimentare: la Tendopoli di San Ferdinando (inaugurata nel febbraio 2012) e il campo container di Rosarno (attivo dal gennaio 2011) sono la tardiva e inefficace risposta a quella che viene trattata dalle istituzioni come un’emergenza o un’invasione. Ma nei primi mesi del 2013 la stessa tendopoli è stata anche teatro di percorsi, in parte inediti, di auto-organizzazione dei lavoratori che la abitavano. Percorsi cresciuti anche a partire da due tende, attraverso le quali attivisti di varie nazionalità hanno dato vita a uno spazio “liberato”, di cui vogliamo raccontare, supportando i lavoratori nell’esprimere le loro rivendicazioni.
Nonostante i discorsi e i dispositivi emergenziali adottati dalle istituzioni, le condizioni di emarginazione vissute dai braccianti africani presenti nel territorio calabrese sono la normalità, e sono funzionali ad un sistema di sfruttamento del lavoro che è rimasto sostanzialmente invariato. Da almeno due decenni, gli africani (insieme a lavoratori dell’est Europa) ogni inverno arrivano nella Piana di Gioia Tauro, in numero tendenzialmente crescente, per la raccolta degli agrumi. E si vedono negato l’affitto di una casa o una stanza per il razzismo e le speculazioni dei proprietari. Anche quando sono disposti ad affittare ad un “nero”, pretendono canoni altissimi. Gli africani alloggiano quindi da sempre in strutture abbandonate, prive di acqua e luce, fino a stagione conclusa. E poi spesso si spostano altrove. Aggressioni a sfondo razzista erano all’ordine del giorno, specie prima della rivolta di Rosarno – la seconda in due anni – che nel gennaio 2010 accese i riflettori sulle condizioni dei lavoratori africani.
Alla rivolta seguirono la deportazione di massa, la normalizzazione forzata del territorio e un impiego più massiccio nelle campagne di cittadini comunitari, soprattutto bulgari e rumeni, i quali vivono condizioni in parte differenti da quelle degli africani. Tuttavia, già nel 2011 la tendenza è cambiata. Secondo il dossier di monitoraggio presentato dalla rete Radici in collaborazione con la Fondazione Integra/Azione (2012), nella stagione 2011/2012 ‘più di 2000 africani hanno trascorso sulla Piana almeno parte della stagione agrumicola’ (26), a fronte di circa 3500 nel periodo precedente la rivolta. Per la stagione appena conclusa, possiamo stimare una presenza di circa 2500 braccianti africani.
Negli ultimi anni, la crisi economica si è aggiunta ai fattori che spingono molti lavoratori stranieri, espulsi dalle fabbriche del nord, nelle campagne della Piana di Gioia Tauro. Qui, come altrove, è possibile sopravvivere con poco e senza controlli troppo stringenti dei documenti, lavorando saltuariamente e in nero per paghe infime. Per molti immigrati, Rosarno è una delle mete del circuito stagionale di lavoro bracciantile nelle campagne italiane – una la zona grigia e immobile in cui si cerca di sopravvivere, in una cesura escludente che va ben oltre l’avere o meno un permesso di soggiorno.
Con un totale di circa 400 posti letto a disposizione, la tendopoli e il campo container non hanno certo potuto ospitare tutti i potenziali braccianti che sono giunti nella Piana in cerca di lavoro a partire da ottobre 2012. Così, in breve tempo, accanto alla tendopoli “ufficiale” da 260 posti (che già di per sé presentava una serie di problemi strutturali dovuti al suo allestimento su un sito non idoneo) si è creata una sorta di baraccopoli spontanea costruita con materiali di fortuna, il ghetto nel ghetto, il ghetto obbligato. Un’interrogazione parlamentare del 6 dicembre 2012 fa presente come ‘il campo di accoglienza di San Ferdinando gestito dal Ministero dell’Interno e approntato dalla protezione civile regionale per la preventiva durata di tre mesi è ancora esistente con la presenza di circa 650 lavoratori a fronte di una capacità di circa 260 posti; solo nella zona di Rosarno le organizzazioni sindacali stimano l’arrivo di circa 1.000 lavoratori stranieri presso la struttura gestita dal Ministero dell’Interno.’ Si parla di rischio igienico-sanitario, di invasione, di emergenza. Le amministrazioni si agitano invocando aiuti nazionali. “Gli africani” (spesso identificati in base ad un’appartenenza “etnica” e non in quanto lavoratori o disoccupati) vengono ancora una volta additati come il “problema” da gestire, a fronte di una possibilità occupazionale molto ridotta.
La gestione del campo, affidata all’associazione di stampo evangelico “Il mio amico Jonathan”, è un esempio emblematico di un sistema di sub-appalto a privati e associazioni che sulla pelle degli ultimi spesso speculano, costruendo piccole fortune. Nella Piana di Gioia Tauro la gestione emergenziale del lavoro migrante si ripete e si modifica: dopo la deportazione degli africani “rivoltosi” si approntano tende del Ministero dell’Interno. Altrove destinate ai terremotati, qui sono la rappresentazione concreta di una politica di abbandono e isolamento di migliaia di lavoratori stagionali, dentro e fuori le strutture ufficiali. Situati lontano dai centri abitati e distanti tra loro, la tendopoli e il campo container incarnano un’esclusione simbolica e materiale, il mantenimento di barriere su base razziale, etnica, nazionale, la negazione di diritti ritenuti fondamentali.
Problemi che riguardano il lavoro, la casa, l’inserimento sociale vengono ridotti a una generica emergenza gestita al di fuori di qualsiasi logica giuridica: lo “stato di eccezione” qui assume caratteri peculiari, regolati da corruzione e arbitrarietà. Ormai l’emergenza è permanente, ed è anche una fonte di profitti. Non solo per chi ha in appalto la gestione delle strutture cosiddette di accoglienza, ma in generale per un’economia che scarica i costi di produzione e riproduzione sull’ultimo anello della catena. I lavoratori, soprattutto se stranieri, sono indotti ad accettare magri salari e condizioni di vita appena al di sopra della soglia di sopravvivenza. L’esclusione e l’isolamento sono dunque l’ennesima testimonianza di come la normalizzazione dell’anomalia sia un fenomeno endemico e strutturato, agevolato da un sistema normativo sull’immigrazione perfettamente funzionale alla gestione della manodopera migrante.
In questo senso il settore agricolo, soprattutto nel Mezzogiorno, è diventato un laboratorio politico e sociale in cui si dipanano le peggiori forme di sfruttamento e frammentazione: da un lato, a causa delle pressioni sugli agricoltori dovute alle liberalizzazioni dei mercati internazionali dei prodotti agroalimentari; dall’altro lato, grazie a leggi sull’immigrazione che hanno creato sacche sempre più ampie di clandestinità e di esclusione e un numero altissimo di lavoratori vulnerabili e ricattabili. L’esclusione – formale e geografica – maschera quindi un’integrazione perfetta dei migranti all’interno di un mercato del lavoro sempre più sfruttato e senza regole. Sebbene i caporali – italiani, africani o est-europei – vengano spesso additati come i maggiori responsabili di questa situazione, magari perché legati alle organizzazioni mafiose, è chiaro, a Rosarno più che altrove, che questa spiegazione è semplicistica. Qui l’intermediazione della manodopera è per gli africani subsahariani meno strutturata e pervasiva che altrove (ad esempio nel foggiano) ed è più evidente che lo sfruttamento è dovuto a un sistema economico perverso di cui il caporalato è solo un aspetto, seppur importante.
Il settore agrumicolo della Piana è in profonda crisi, aggravando il surplus di manodopera e il suo conseguente deprezzamento. Se le clementine riescono ancora ad essere vendute a un prezzo che supera i costi di produzione, le arance restano spesso a marcire a causa della concorrenza internazionale, del monopolio della grande distribuzione organizzata, e dei prezzi imposti dai commercianti. Molti piccoli agrumeti vengono venduti a pochissimi grandi proprietari, che riescono ad essere competitivi gestendo l’intera filiera, dalla raccolta al trasporto su gomma. La polemica che a febbraio 2012 ha coinvolto la Coca Cola è significativa: additata dalla rivista britannica Ecologist come complice dello sfruttamento dei braccianti africani, a causa del ridicolo prezzo a cui acquistava da alcune aziende della Piana il succo concentrato di arancia per la produzione della Fanta, la multinazionale ha annunciato di voler disdire i contratti e acquistare altrove (facendo così “preoccupare” il sindaco di Rosarno).
E i problemi di questo territorio non si esauriscono nella crisi degli agrumi: infiltrazioni della criminalità organizzata nel sistema economico e politico, disoccupazione e lavoro nero, un profondo disagio sociale. Lo scenario è quello di un territorio violentemente sfruttato – è di questi mesi la lotta dei cittadini della Piana contro il progetto di costruire un rigassificatore a ridosso del porto di Gioia Tauro, a poche centinaia di metri dalla tendopoli di San Ferdinando e dagli agrumeti – in cui convivono povertà e abbandono. Le divisioni, la concorrenza e il razzismo tra italiani, africani ed est-europei trovano qui un terreno fertile, alimentando la frammentazione e rendendo difficile costruire rivendicazioni condivise. Mentre lo spettro della “rivolta di Rosarno” viene usato da media e politici per alzare la tensione e gridare allo stato d’emergenza.
Passa inosservato invece quello che, dalla rivolta del 2010, è nato sul territorio: in primis l’associazione Africalabria, in cui italiani e africani hanno costruito uno spazio di confronto paritario e trasversale, sviluppando pratiche quotidiane che contrastano il razzismo diffuso. Al lavoro di Africalabria si affianca quello di SOS Rosarno, associazione di piccoli produttori che si sono sottratti alla grande distribuzione organizzata e vendono agrumi e ortaggi biologici ai gruppi di acquisto solidale di tutta Italia, pagando ai raccoglitori, africani e italiani, il salario previsto dal contratto provinciale.
Queste due realtà sono la componente calabrese della Rete: un coordinamento nazionale composto da associazioni, collettivi, ricercatrici e ricercatori, lavoratori africani e italiani, GAS, organizzazioni contadine e centri sociali, nato nel 2011 e che a partire dall’agosto del 2012 si sperimenta in pratiche condivise di intervento diretto nei “ghetti” delle campagne del Sud, ma non solo. Valorizzando i percorsi individuali e collettivi di militanza e ricerca delle sue componenti, la Rete cerca di rompere l’isolamento dei lavoratori, rifiutando una logica assistenzialista e al contrario stimolando processi di emancipazione e di auto-organizzazione. Dopo il primo intervento al Grand Ghetto, in Capitanata, tra gennaio e marzo 2013 la Rete ha allestito il suo secondo intervento nella Piana di Gioia Tauro tra i braccianti impegnati nella raccolta degli agrumi, molti dei quali in estate raccolgono i pomodori nel foggiano.
Nella Piana sono state in parte riprodotte le pratiche utilizzate al Grand Ghetto, rimodulandole in un territorio diverso e altrettanto complesso, anche qui con l’obiettivo di diventare un vero e proprio strumento di rottura e di supporto concreto ai lavoratori africani. La scuola di italiano, la ciclofficina itinerante, i momenti informativi sulla sicurezza stradale, gli spazi orientativi per l’assistenza legale sui permessi di soggiorno e le condizioni contrattuali sono state alcune delle attività della Rete. Per tre mesi, le due tende poste ai margini della baraccopoli prima, e la tenda all’interno della nuova tendopoli poi, hanno rappresentato uno spazio fisico protetto, distinto dai luoghi dove si mangia e si dorme, dove è stato possibile discutere liberamente, confrontarsi e attivare processi di auto-organizzazione.
Il lavoro che da tempo svolge Africalabria sul territorio ha facilitato la partecipazione diretta dei lavoratori stessi all’intervento della Rete: molti degli attivisti di Africalabria vivevano proprio nella tendopoli o nella baraccopoli adiacente e sono diventati mediatori “naturali” tra i lavoratori e le decine di militanti-volontari, provenienti da tutta Italia, che si sono alternati nel corso dell’intervento. In questo modo è stata favorita, più rapidamente che altrove, la creazione di spazi di confronto e di pratiche di autogestione in comune, tra i lavoratori e i militanti-volontari e tra i lavoratori dentro e fuori la tendopoli.
Partendo dal superamento della logica assistenzialista e di quella, ancor più sottile, dell’“antirazzismo etico”, si è cercato di creare uno spazio in cui le diverse dimensioni dello sfruttamento – lavoro, condizioni abitative, accesso ai servizi – potessero essere discusse, anche per capire come affrontarle concretamente. Grazie, da una parte, al forte spirito organizzativo e critico dei lavoratori africani, e dall’altra all’aver creato uno spazio libero di auto-organizzazione, attraverso e al di là delle pratiche proposte dalla Rete, i rapporti di forza tra le istituzioni coinvolte e gli abitanti della tendopoli/baraccopoli si sono almeno momentaneamente modificati.
Due sono stati gli episodi più significativi in questo senso. Il primo ha riguardato la tendopoli stessa. Nei primi giorni di febbraio, quando la stagione di raccolta degli agrumi volgeva al termine,i lavoratori sono stati “invitati” a lasciare la tendopoli e la vicina baraccopoli per questioni di ordine igenico-sanitario, e a trasferirsi entro 72 ore in una nuova tendopoli distante poche centinaia di metri. Tutto questo a fronte del pagamento anticipato di 30 euro al mese per poter vivere nella nuova tendopoli e allo stesso tempo per far fronte ai costi di manutenzione che l’associazione di volontariato “Il mio amico Jonathan” doveva sostenere. La rabbia, l’incredulità e l’assoluta certezza di non voler pagare per dover vivere come terremotati hanno portato molti lavoratori a organizzare il loro dissenso: si sono riuniti in assemblea e hanno individuato dei delegati (uno per ogni nazionalità presente) per portare alle istituzioni responsabili il loro rifiuto di pagare i 30 euro. Si sono quindi succeduti diversi momenti assembleari, sia tra i lavoratori sia in un confronto con i militanti-volontari di Campagne in Lotta, e alcuni incontri con il sindaco di San Ferdinando, diverse realtà associative (come la Caritas e Libera) e il commissariato di polizia. La volontà dei lavoratori di non pagare di tasca propria l’emergenza istituzionalizzata alla fine ha avuto la meglio: il trasferimento alla nuova tendopoli non solo è avvenuto gratuitamente, ma è stato anche organizzato autonomamente dai lavoratori stessi, secondo criteri da loro decisi e coinvolgendo efficacemente la maggior parte degli interessati.
L’altro momento in cui i lavoratori africani hanno dimostrato una grande capacità di auto-organizzazione e mobilitazione è stata la manifestazione per la sicurezza nelle strade, che si è svolta a Rosarno il 17 marzo e ha segnato anche la conclusione delle attività della Rete. In diversi momenti assembleari era emersa da parte dei lavoratori la volontà di manifestare e raccontare alla città la propria rabbia per i numerosi incidenti sulle strade di cui sono vittime: non avendo altri mezzi a disposizione e non esistendo una rete di trasporto pubblico, essi si spostano spesso in bicicletta, anche su strade trafficate e a scorrimento veloce, oppure prive di illuminazione. L’incidente più grave era avvenuto il 13 dicembre, con la morte di Dyaby, originario della Guinea Conakry, investito da un’auto mentre, in bicicletta, tornava a “casa” dopo la spesa. Nonostante lo spettro della rivolta fosse ancora forte e presente nelle riflessioni dei lavoratori, anche di chi in quei giorni non era a Rosarno, ha prevalso la volontà di scendere in strada, per cercare un dialogo e per la necessità di essere percepiti in modo diverso dalla popolazione locale: non come bisognosi di carità o oggetto di controllo, ma in quanto abitanti e lavoratori.
La manifestazione è stata senza dubbio un passaggio importante per la consapevolezza politica dei lavoratori. Questi, infatti, con il sostegno di alcune associazioni della Piana, hanno svolto un capillare lavoro informativo nei diversi insediamenti degli stagionali (tendopoli, campo container e i numerosi casolari abbandonati che circondano la città), nelle case degli stanziali e nei luoghi di ritrovo dei lavoratori (internet point, supermercati, ecc.). L’organizzazione si è dimostrata efficace e il giorno della manifestazione la presenza dei lavoratori è stata molto significativa, sia in termini numerici sia per le modalità della partecipazione, attraverso gli interventi a microfono aperto, il coinvolgimento dei passanti a piedi e in auto, la distribuzione dei volantini e le discussioni per spiegare i motivi della manifestazione. Il volantino, tradotto in più lingue, recitava:
A tutti i cittadini e a tutti gli automobilisti. Vorremmo avere la vostra attenzione su un problema che riguarda non solo Rosarno, ma tutta la Calabria e anche l’Italia. Come già saprete, le strade di Rosarno non sono in buone condizioni: sono dissestate, non illuminate, e mancano completamente di marciapiedi e piste ciclabili. Queste condizioni stradali NON rappresentano la norma e favoriscono, insieme ad un comportamento sbagliato da parte degli automobilisti, situazioni di pericolo ed incidenti anche mortali: a maggior ragione, chiediamo che si presti più attenzione, da parte di voi automobilisti tanto quanto di noi pedoni e ciclisti, perché tutti siamo esseri umani, cittadini ed utenti della strada, e perché LA STRADA è DI TUTTI.
CI PIACEREBBE CHE ROSARNO DIVENTASSE UNA CITTÀ DOVE POTERSI MUOVERE SENZA PAURA.
Nonostante la questione della sicurezza stradale possa apparire marginale rispetto ai molti problemi affrontati quotidianamente dai lavoratori africani nella Piana, la manifestazione ha rappresentato un momento importante di aggregazione e rivendicazione collettiva, al di là delle barriere nazionali, “etniche” o “razziali” che troppo spesso separano italiani e migranti, e viste le difficoltà strutturali del territorio. Una rivendicazione sul piano del lavoro e dell’accoglienza sarebbe necessaria, ma per ottenerla occorre un lavoro capillare e a lungo termine di cui questa prima esperienza, ci auguriamo, non rappresenta che l’inizio.
A nostro parere, l’intervento nella Piana di Gioia Tauro può essere un esempio di come, pur in condizioni di estremo sfruttamento e ghettizzazione, non sia impossibile modificare i rapporti di forza all’interno di un territorio. I percorsi di rivendicazione descritti vanno oltre il lavoro di Campagne in Lotta. Tuttavia, pensiamo che la creazione di rapporti di fiducia, l’istituzione di un luogo protetto e in cui potersi esprimere liberamente, la discussione sui diritti e i servizi di cui si può beneficiare, il costante confronto paritario tra italiani e migranti, abbiano contribuito alla auto-organizzazione dei lavoratori, i quali sono riusciti a incidere, almeno in parte, su processi decisionali di cui spesso sono solo spettatori muti.
Da luglio si ricomincia, di nuovo dal foggiano. E questo è anche un appello per i lettori.