Per quale ragione si deve vivere sfruttati e in silenzio? Noi siamo più di loro, ricordiamocelo sempre



Una persona investita e poi denunciata, un arrestato pestato selvaggiamente e diverse cariche della polizia. Dieci fogli di via già esecutivi da diversi comuni e dodici denunce per interruzione di pubblico servizio e manifestazione non autorizzata (le cui pene sono state inasprite dalle recenti leggi Salvini, con salatissime multe per blocco stradale, da 1000 a 4000 euro).
Questo è solo il primo bilancio della risposta che lo Stato e le istituzioni hanno dato alle proteste e gli scioperi messi in campo lo scorso 6 dicembre in Calabria e in Puglia. Quel giorno infatti i lavoratori e le lavoratrici delle campagne si sono rifiutate di andare al lavoro e ancora una volta hanno manifestato con coraggio, insieme a solidali venuti da tutta Italia, bloccando la zona industriale di Foggia e l’ingresso del Porto di Gioia Tauro. Le loro richieste? Sempre le stesse, da tanti anni, poter vivere e lavorare senza essere sfruttati, che per un cittadino non europeo significa anche poter accedere a un permesso di soggiorno. Per questo lo scorso 6 dicembre, ancora una volta, erano in strada per chiedere un incontro con il Ministero dell’Interno, visto che in più occasioni, nel corso degli anni, le prefetture hanno ribadito di avere le mani legate dalla legge sull’immigrazione.
In questo contesto è da sottolineare come la repressione si sia accanita in modo particolare su quelle compagne e compagni che vivono nei territori in cui queste lotte sono state portate avanti, anche attraverso gravi episodi intimidatori da parte di forze di polizia, che hanno minacciato giovani solidali pistole alla mano, con modalità iper-violente e atteggiamenti che avrebbero potuto mettere a repentaglio l’incolumità di persone la cui colpa era quella di voler sostenere la protesta auto-organizzata dei lavoratori migranti dopo i due gravissimi incidenti che sono costati la vita a 16 persone nell’agosto 2018 a Foggia.
Oppure attraverso l’utilizzo di fogli di via, che vanno a colpire la possibilità di frequentare il capoluogo della propria provincia e l’università del territorio in cui si vive. Questo significa escludere le persone dal proprio contesto sociale definendole arbitrariamente “pericolose”, per spezzare legami e relazioni. Colpire il quotidiano, isolare e frammentare i contesti e le traiettorie di vita e di lotta, in una provincia altrettanto isolata. Come si può fingere di non vedere l’arbitrarietà con cui queste pratiche vengono applicate? Come si può non riconoscere che, “pericolose” e “violente”, sono soltanto le misure repressive delle questure e delle prefetture? La risposta appare evidente in tutta la sua grossolana brutalità.
Stessa brutalità che hanno subito (e stanno subendo) i lavoratori dell’azienda Superlativa di Prato, che hanno manifestato per il mancato pagamento di sette mesi di stipendio, e in tutta risposta a loro e a chi è venuto a portare solidarietà sono stati chiesti migliaia di euro di multa. Così come i pastori in Sardegna, denunciati in 600, perché hanno protestato contro i prezzi di vendita del latte con cui non arrivano a fine mese.
Ancora più brutale e pervasiva è la repressione, che a volte diventa morte, che riceve chi lotta e si ribella nelle carceri e nei CPR (centri permanenti per il rimpatrio), all’interno dei quali si susseguono da sempre rivolte ed evasioni, contro la detenzione e le sue condizioni.
Senza dimenticare il prezzo altissimo che pagano gli immigrati che provano ad attraversare le frontiere – terrestri e marine – a cui si affianca la repressione che colpisce chi aiuta e sostiene la circolazione di persone come loro, dai numerosi solidali al confine con la Francia alle navi delle Ong nel Mediterraneo.
Così come il costante e violento attacco rivolto alle migliaia di persone che da decenni si battono contro la Tav in Val Susa, e contro le altre numerose aggressioni che ricevono i territori in cui viviamo.

Le conclusioni quindi sono sempre le stesse: se sei povero, o comunque sei costretto a lavorare per vivere, devi anche rimanere in silenzio davanti allo sfruttamento sociale, ambientale e lavorativo a cui sei costretto, se no rischi in più pestaggi, multe, limitazioni della libertà personale e il carcere.
Insomma, secondo loro dovremmo vivere iper-sfruttati e silenziati, ma perché? Fortunatamente in questo paese sono in tanti a lottare e solidarizzare, per stare meglio e per non farsi sopraffare.
I lavoratori e le lavoratrici delle campagne, chi vive nei ghetti, chi da anni porta avanti insieme a loro le stesse lotte neanche questa volta vogliono restare in silenzio.

Finché non abbiamo quello per cui lottiamo non ci fermiamo!
Blocchiamo tutto!

Rete Campagne in Lotta

Comitato lavoratori delle campagne

Collettivo InApnea