A partire dal precedente incontro del tavolo su ‘Lavoro bracciantile e caporalato in agricoltura (Roma, 17 maggio), proponiamo una serie di riflessioni e di temi per il prossimo incontro. Nel corso degli ultimi 3 anni, trascorsi a stretto contatto con i lavoratori e le lavoratrici, i disoccupati e le disoccupate, in grande maggioranza stranieri, che vivono ed attraversano i territori ad alta intensità di produzione agro-industriale di questo paese, sono stati individuati ed in parte affrontati i nodi ed i problemi principali rispetto alle condizioni di lavoro, sociali ed abitative, che caratterizzano questi territori e non solo. Questo percorso di lotta si è snodato attraverso la nascita e le azioni di un Comitato trans-territoriale di lavoratori precari autorganizzati, che hanno articolato il loro percorso di rivendicazione su un piano che va oltre il lavoro strettamente agricolo per svariate ragioni.
Crediamo che sia più opportuno ed incisivo parlare di lavoro precario e di disoccupazione nei territori agro-industriali, piuttosto che di bracciantato e di caporalato, prima di tutto in una prospettiva di ricomposizione delle lotte che metta in luce la precarietà comune a tutti i settori e il ruolo che in essa giocano diverse forme di intermediazione, più o meno legalizzate (dal caporalato alle cooperative, che operano in agricoltura come in altre attività produttive). Parlare di precarietà significa mettere l’accento sul fatto che una lavoratrice o un lavoratore per sopravvivere sono costretti a svolgere diverse attività contemporaneamente o a fasi alterne, attività spesso a bassissima soglia di competenze, in cui la professionalità non viene riconosciuta. La precarizzazione è fondata, inoltre, su politiche migratorie a livello europeo che creano una forza-lavoro ad alta ricattabilità, iper-mobile e facilmente sostituibile (vedi Turco-Napolitano e Bossi-Fini), razzializzata e segregata anche attraverso dispositivi emergenziali di ‘accoglienza’.
È importante sottolineare che nei territori agro-industriali di questo paese, i lavoratori – soprattutto quelli stranieri – sono molto spesso “braccianti per caso”. Infatti la maggior parte di loro si è visto costretto a riversarsi in questi territori, non avendo alternative, di vita e di lavoro, altrove. Esiste un circuito di forza-lavoro bracciantile che si sposta entro certi territori secondo modalità e percorsi prestabiliti a seconda delle stagioni di raccolta. Ma parlare di lavoro stagionale è fuorviante, e divisivo dei lavoratori, poiché la mobilità e la stagionalità non sono una scelta di vita ma una necessità dettata da condizioni strutturali legate a un sistema produttivo che genera e sfrutta la precarietà estrema. A grandi linee, si possono individuare alcune tipologie di “braccianti per caso”:
• Una parte di lavoratori popola questi contesti da sempre – 10/15 anni – dimostrando una certa continuità nel lavoro agricolo. Molto spesso, però, questa presenza più o meno costante è dovuta all’impossibilità di inserirsi altrove, ad esempio per il fatto di non essere in possesso di un permesso di soggiorno.
• Molti, presenti in Italia da più di dieci anni in media, sono stati letteralmente espulsi dalle città medio-grandi del Centro-Nord poiché hanno perso il lavoro, non potendo quindi più permettersi di mantenere un determinato tenore di vita (es. pagamento di un affitto, o le rimesse verso i paesi di origine).
• Altri ancora sono arrivati in Italia negli ultimi 2/3 anni, “accolti” in condizioni estremamente precarie. Una volta ottenuto un permesso di soggiorno a sua volta precario in ragione di ostacoli burocratici di varia natura (vedi residenze ed altri sistematici arbitri istituzionali) si sono trovati costretti a vivere in strada, senza alcuna prospettiva.
In questo scenario si colloca anche lo sfruttamento del lavoro riproduttivo e di cura necessario per il mantenimento dei lavoratori sulla soglia della sopravvivenza. Chi vive nei ghetti può contare su servizi alla persona (sessuali, di ristorazione, di alloggio etc.) forniti in maggioranza da donne la cui sopravvivenza è in parte vincolata alle condizioni salariali dei lavoratori agricoli. Inoltre, finanziando la macchina umanitaria (campi, sportelli legali, cure mediche, acqua potabile…) con denaro pubblico, le istituzioni e il terzo settore creano un sistema in cui lo sfruttamento agisce su molteplici piani: dal territorio e le sue risorse alla segregazione di una manodopera che lavora per sopravvivere.
Proponiamo quindi di aprire un tavolo che parli di salario e di disoccupazione nei territori agricoli italiani, all’interno del quale uno scambio tra i diversi attori coinvolti è quanto mai necessario. E nello specifico ci riferiamo ovviamente ai contadini e ai lavoratori precari. Proponendo un confronto, ma soprattutto un’alleanza di pratiche e di lotte, che anche nelle campagne metta al centro il conflitto capitale/lavoro, e il proliferare di forme di estrazione del valore che investono tutte le nostre esistenze nel loro complesso. La risposta deve passare attraverso forme di auto-organizzazione in chiave riappropriativa e di trasformazione radicale. La lotta contro lo sfruttamento di tutti gli aspetti della vita di chi lavora nelle campagne è indispensabile affinché si possa arrivare a scardinare l’attuale sistema estrattivo in tutte le sue articolazioni. La riappropriazione deve essere intesa in senso ampio, a partire da condizioni oggettive diverse: per i precari riappropriazione significa lottare per migliori condizioni di lavoro e di vita, per case e documenti, contratti e contributi, con l’obiettivo di una reale redistribuzione equa delle risorse e di un accesso generalizzato ai mezzi di produzione. Creare e sostenere il conflitto nelle campagne significa quindi mettere in atto forme di solidarietà e redistribuzione reale.