L’estate scorsa, 40 lavoratori marocchini, donne e uomini, hanno fatto emergere, nel profondo Nord, una realtà che nessuno conosceva, né poteva immaginare.
Castelnuovo Scrivia è un paese di poco più di 5 mila abitanti, al centro della Bassa Valle Scrivia, in provincia di Alessandria, sul confine con la Lombardia. La campagna, molto fertile, è coltivata in gran parte ad ortaggi e rifornisce i mercati di Torino e Milano, oltre a importanti aziende della grande distribuzione commerciale.
Il lavoro di raccolta è affidato, da anni, dagli agricoltori di questa zona, a lavoratori stagionali, provenienti soprattutto dal Nord Africa.
Verso la fine del giugno scorso, una quarantina di donne e di uomini marocchini, impiegati come braccianti presso l’azienda agricola “Bruno Lazzaro” di Castelnuovo Scrivia, hanno detto “basta!” alle condizioni un cui venivano costretti a lavorare: hanno incrociato le braccia ed hanno incominciato a presidiare i campi in cui lavoravano.
Le condizioni di vita e di lavoro di queste persone erano tra le più disumane, una sorta di schiavismo senza catene. Orari di lavoro insostenibili: si iniziava alle 6.30, si faceva una pausa di mezz’ora alle 14.30 e poi si tornava a raccogliere verdura sotto il sole cocente fin dopo il tramonto. Erano spesso costretti a dissetarsi bevendo l’acqua dei canali di irrigazione, acqua che arrivava direttamente dal torrente Scrivia! Alcune donne erano alloggiate nell’azienda agricola in condizioni spaventose, dormivano in quattro, una sopra l’altra, tra rifiuti ed attrezzi da lavoro. Tutto questo per un salario che è eufemistico definire “da fame”: prima prendevano 5 euro all’ora, poi 4, poi solo sporadici acconti, infine più nulla. Da questo, dovevano togliere anche le spese per il materiale che usavano per lavorare, come ad esempio, i guanti, gli stivali, il vestiario.
Un aspetto inquietante della vicenda è il sospetto di una vera tratta di donne e di uomini gestita da organizzazioni criminali, che lega il Piemonte e la Bassa Valle Scrivia ad alcune zone agricole del Marocco, da dove provengono questi migranti.
Venerdì 22, ore 6.00 del mattino, un giorno come tanti, inizia la rivolta. Per la prima volta nella loro vita, questi braccianti incrociano le braccia, pronunciano la parola “sciopero”. Da soli. Poi chiamano noi. E diventano immediatamente visibili a tutti. Allestiscono un presidio di tende e frasche nei pressi della cascina, viene istituita una Cassa di resistenza per tirare avanti, chiedono l’aiuto alla Cgil, ad associazioni, partiti, cooperative sociali. Serve tutto: cibo, vestiario, aiuti. Sono anche giorni di forte tensione, tra picchetti, invasione dei campi per bloccare i crumiri, blocchi stradali e delle merci, denunce. Nasce il Presidio permanente, realtà auto organizzata, composta da lavoratori e solidali, scaturita dalla lotta dei braccianti marocchini dell’azienda agricola “Bruno Lazzaro”, che continuerà anche dopo i 74 giorni del presidio sulla strada, dando vita anche ad uno sportello legale.
Un primo accordo sindacale tra la Cgil e la Cia (Confederazione Italiana Agricoltori: quella di “sinistra”, che rappresentava l’azienda “Bruno Lazzaro”) viene stracciato dal padrone, quando, da Brescia, fa arrivare una cooperativa di raccoglitori indiani, la Work Service, fatta di presunti cottimisti che si alzano alle quattro del mattino per essere nelle campagne castelnovesi alle prime luci dell’alba. E alla data del 31 luglio, i primi quattordici lavoratori marocchini vengono messi alla porta. Licenziamento verbale. Motivazione ufficiale: scadenza del contratto. Ma il contratto non esiste, quello prodotto dal padrone all’Ispettorato del Lavoro reca firme false, come pure le buste paga dell’anno in corso.
Cresce rabbia e tensione. In mezzo ai campi di pomodori, in quei giorni, qualcuno avrebbe voluto lo scontro tra disperati – marocchini contro indiani – senza però riuscirci. La lotta si rafforza attraverso gli scioperi, i blocchi, le manifestazioni.
Venerdì 3 agosto. Una bella e grande manifestazione sindacale, come non si vedeva da anni per entusiasmo e partecipazione, ha attraversato la città di Alessandria, con in testa i braccianti della Lazzaro, dietro lo striscione “No sfruttamento, no schiavismo”. Dopo un primo sit-in davanti alla Prefettura, il corteo ha raggiunto la sede della Cia. “Schiavi mai”, “Giustizia, giustizia”, “Lazzaro vergogna, Cia vergogna”, gli slogan più gridati durante il percorso e nel secondo sit-in. Parte una campagna di boicottaggio contro i supermercati Bennet, tra i principali clienti dei Lazzaro. Grande scandalo, i pennivendoli del padrone si stracciano le vesti, i più moderati sostengono che la campagna danneggia gli stessi braccianti marocchini. Niente di più sbagliato: Lazzaro ha già deciso, nei suoi campi lavorano solo gli indiani della Work Service, che da dodici erano ormai diventati una trentina.
Manifestazioni, tavoli in Prefettura, ispezioni della Direzione provinciale del Lavoro e, infine, un’inchiesta della Procura della Repubblica di Torino che, come primo atto, ha riconosciuto il permesso di soggiorno ai lavoratori marocchini irregolari a seguito della denuncia per riduzione in schiavitù, non hanno fatto desistere la proprietà, che alza nuovamente il tiro, con l’obiettivo di disfarsi dei restanti lavoratori marocchini. A metà agosto, compare un cartello incollato con nastro adesivo su un palo della luce, sulla strada, davanti al presidio dei lavoratori: “Dal 17 agosto, i marocchini dipendenti dell’azienda agricola Lazzaro Bruno e Lazzaro Mauro cessano l’attività presso la suddetta azienda e non lavorano più”. Licenziamenti, con un tocco di discriminazione razziale: il massimo!
Come nelle piantagioni del primo Novecento, quando non c’erano diritti e rappresentanze sindacali e tutto dipendeva dalla volontà del padrone della terra, da un giorno all’altro, tutti e quaranta i braccianti della Lazzaro si sono trovati senza lavoro, ed oggi, nonostante le vertenze aperte per i salari non corrisposti e i diritti calpestati, rischiano di trovarsi davanti agli sfratti esecutivi e al “taglio” delle utenze, loro che – ironia della sorte – avevano denunciato il padrone per grave sfruttamento e riduzione in schiavitù!
Quando si sente parlare di lotte dei braccianti agricoli – in pieno XXI secolo – con tutto il contorno di aberranti condizioni del lavoratore e della lavoratrice, e delle risposte repressive alle lotte incipienti, molti scomodano il paragone con il primo ‘900. A noi il quadro sembra molto più complesso. Queste lotte, che esplodono in punti nodali ed avanzati della produzione capitalistica, rappresentano la novità di questa fase neoliberista. Non sono lotte arretrate, novecentesche, se pur provengono da condizioni di sfruttamento simili a quelle praticate ai primordi del capitalismo o nelle regioni del Terzo Mondo. Sono lotte che tendono ad investire non il semplice “padrone”, ma a far emergere l’aspetto di filiera dellosfruttamento: non a caso, si parte dalle campagne – con le condizioni lavorative sopra descritte, una situazione comune a parecchie realtà della zona – e si arriva ai trasporti, ai centri distributivi delle grandi catene commerciali – dove la popolazione lavorativa e le condizioni di sfruttamento sono simili, e dove, grazie all’utilizzo di pseudo-soci e di pseudo-cooperative, che gestiscono in appalto queste realtà, si possono ignorare diritti, contratti e leggi sul lavoro. Per arrivare, infine, ai supermercati e ai centri commerciali delle grandi catene distributive, i veri padroni della catena. Sono loro a determinare le condizioni di oppressione e di sfruttamento dei contadini, che a loro volta scaricano sulla manovalanza bracciantile, sono loro che cedono volentieri in appalto trasporti e centri distributivi per tagliare i costi della manodopera, evadere leggi e contratti e concentrarsi così sul “core business” delle vendite dirette al consumatore, imponendo prezzi e condizioni, sfruttando attraverso mille contratti precari e a part-time, i propri dipendenti diretti.
Da un’analisi più approfondita della vicenda castelnovese, emerge poi un rapporto organico tra imprenditoria agricola e grande distribuzione, una sorta di connivenza tra interessi delle grandi catene distributive ed imprenditoria agricola: da un lato, da parte delle aziende della grande distribuzione, vengono imposte condizioni e prezzi stracciati, con la minaccia di rivolgersi allaconcorrenza, dall’altro, per ottemperare a tali richieste, c’è un’ imprenditoria agricola, legata a doppio filo a questi colossidistributivi, che scarica i costi sull’ultimo anello della catena, i braccianti, praticando condizioni lavorative e salariali proibitive.
In tale ambito, esistono possibilità di coordinamento tra le lotte dei braccianti e quelle dei lavoratori della logistica in varie parti d’Italia –che recentemente, con il successo dello sciopero del 22 marzo, hanno conquistato una visibilità innegabile- tra cui spiccano le mobilitazioni in alcune delle catene di distribuzione dell’agroalimentare.. Sono potenzialità sono tutte da costruire, come sono state costruite faticosamente, pagando anche prezzi pesanti, nel comparto della logistica, soprattutto in Lombardia.
Ci sono innegabili diversità tra i due comparti: il bracciantato è disperso, frammentato, spesso in piccole aziende, risente di una forte precarietà lavorativa stagionale. Le lotte che ci sono state sono importanti, ma sporadiche.
C’è ancora molta strada da percorrere. Occorre analisi, lavoro d’inchiesta, costruzione di momenti di aggregazione non semplici, e ricreare occasioni di conflitto, l’unico strumento in grado di far crescere e produrre risultati per i lavoratori migranti, con la coscienza che siamo davanti non solo ad un problema sindacale, ma politico, che investe tutta la filiera dell’agroalimentare.
Cassa di Resistenza
Servono aiuti urgenti e concreti in denaro e solidarietà attiva. Chi volesse aiutarci, può fare un versamento su modulo di carta postapay al seguente numero: 4023600623581008 (intestatario Antonio Olivieri)
Castelnuovo Scrivia, 25 agosto 2013
Presidio permanente di Castelnuovo Scrivia