Tra polemiche e pubblicità, i padiglioni di EXPO 2015 pretendono di raccontarci come le filiere agroindustriali possano garantire il necessario per “nutrire il pianeta“. Sappiamo bene che questa rappresentazione nasconde con immagini a colori pastello una realtà ben diversa, fatta di sfruttamento di persone e territori, appropriazione violenta e indebita di risorse comuni, impoverimento di masse crescenti costrette a spostarsi per cercare di sopravvivere.
Le piccole aziende agricole, ancora la maggioranza del tessuto produttivo italiano nonostante la loro progressiva diminuzione, subiscono pertanto i ricatti di chi stabilisce i prezzi del prodotto. E si rivalgono sulla manodopera, pagando salari che si attestano sulla metà circa dei minimi sindacali previsti dai contratti collettivi; negando la stipula di contratti o rendendola una mera formalità finalizzata a tutelarsi in caso di controlli; sottraendo ai lavoratori i contributi previdenziali previsti per legge. Com’è noto, le condizioni di lavoro dei braccianti, per la maggior parte immigrati, sono simili a tutte le latitudini, dal Piemonte alla Sicilia.
A cambiare sono le modalità produttive, le colture e gli attori in campo. Ad un altro estremo rispetto alla redditizia filiera del pomodoro, emblematico è anche il caso della Piana di Gioia Tauro, passata agli onori delle cronache dopo la cosiddetta “rivolta di Rosarno” del 2010. Qui, arance e mandarini spesso non si raccolgono nemmeno più: nonostante le paghe infime corrisposte ai braccianti, i piccoli produttori non riescono ad ammortizzare i costi a fronte di prezzi di vendita irrisori a tutto vantaggio del commercio su larga scala.
Lo sfruttamento prodotto dal sistema agro-industriale non si limita, però, alla sola dimensione del lavoro bracciantile e dell’agonizzante agricoltura contadina. Oltre ad un impoverimento della terra e della biodiversità, l’immiserimento di masse di lavoratori e lavoratrici – spesso spinti a migrare dall’avanzare dello stesso modello di stampo neoliberista nei loro paesi di origine – ricade sulla loro intera esistenza.
Condizioni di vita al limite della precarietà caratterizzano centinaia di migliaia di persone che vivono in baracche o abitazioni diroccate, prive di servizi ed isolate dal contesto sociale, spesso costrette a pagare affitti esorbitanti per vivere in tuguri, o addirittura segregate e seviziate da chi gestisce la manodopera per conto delle aziende. D’altra parte, sono le stesse istituzioni a rendere questa precarietà una condizione strutturale in regime di quasi-apartheid, gestendo situazioni endemiche da decenni come emergenze e istituendo così “campi di lavoro”.
L’estrema precarietà diventa l’oggetto di una ulteriore messa a valore: è la macchina umanitaria, che dopo avere sradicato masse di persone dalle loro comunità con le guerre preventive le rinchiude in tendopoli, campi e centri di accoglienza. In Italia, i “campi” sono disseminati su tutto il territorio, allestiti e gestiti – in molti casi con l’incuria e la violenza – attraverso ingenti somme di denaro pubblico.
Anche per questo braccio “compassionevole” del capitalismo Expo si fa vetrina: tra i partecipanti troviamo in prima fila il colosso umanitario della Caritas a presentare, fra gli altri, i suoi “progetti Presidio” sparsi per lo stivale, i quali – sfruttando anche loro il lavoro volontario, in perfetto stile Expo – fanno da guardiani dei campi per i lavoratori stagionali delle campagne e garantiscono i livelli minimi di sopravvivenza necessari perché la macchina agro-industriale non si inceppi.
Il ruolo delle istituzioni nella precarizzazione e nella frammentazione su base nazionale della manodopera si estende, poi, anche alla disciplina della sua mobilità: le leggi sull’immigrazione, gli abusi nella loro applicazione come in quella del diritto a residenza o salute ne sono l’esempio più emblematico.
Infine, la questione di genere che attraversa i contesti in oggetto è particolarmente saliente e delicata. Da una parte, la presenza di grossi insediamenti di lavoratori in prevalenza uomini, isolati e sprovvisti di infrastrutture minime, determina la domanda di servizi, tra cui quelli sessuali, svolti da donne. In questo caso, è evidente come le condizioni di grave sfruttamento a cui sono sottoposti i lavoratori ricadano, amplificate, sulle lavoratrici che permettono la loro riproduzione sociale. Dall’altra, presso quelle comunità in cui anche le donne svolgono lavori agricoli (in prevalenza cittadine rumene e bulgare, come un tempo avveniva con le donne italiane), è preoccupantemente diffuso, da sempre, l’abuso sessuale da parte dei padroni delle aziende e dei caporali.
In questo scenario, il nostro obiettivo come Rete Campagne in Lotta è un’azione di denuncia e rivendicazione a fianco di lavoratrici e lavoratori, costruita attraverso percorsi quotidiani di solidarietà, confronto e inchiesta, che tenga conto della complessità dell’organizzazione produttiva nel settore agro-alimentare e crei alleanze lungo tutta la filiera, dalla produzione alla vendita.
Allo stesso tempo, come ci ha insegnato l’esperienza diretta, le rivendicazioni dell’ultimo anello della filiera non possono riguardare soltanto la questione del salario, poiché questa è legata a doppio filo alla mancata fruizione di importanti diritti e servizi fondamentali (casa, salute, contratti di lavoro, trasporto…), legata alla cittadinanza e a forme estreme di sessismo e razzismo.
Per questo, l’intervento della Rete Campagne in Lotta da sempre cerca di coniugare un lavoro di inchiesta e intervento sulla questione del lavoro e del salario a quella delle leggi sull’immigrazione e la loro applicazione, della macchina umanitaria e dei suoi abusi, e più in generale della precarizzazione come risultato, tra gli altri, di pratiche amministrative e abusi di potere.