CONTRO SESSISMO E RAZZISMO, RIPARTIAMO DA NOI
La violenza eteropatriarcale e quella razzista sono intrecciate e si rinforzano a vicenda in molteplici modi. Non solo il concetto di “razza” è per sua natura legato all’ossessione per il controllo della riproduzione e quindi del corpo delle donne. Le politiche migratorie, intrise di razzismo istituzionale, sono anche politiche sessiste, che mirano a controllare, sfruttare e segregare le migranti. Ad esempio, assegnandole a mestieri di cura in condizioni di sfruttamento e segregazione, legando il loro permesso di soggiorno a quello del marito, o subordinando l’ottenimento dei documenti all’accertamento, da parte di un qualche “esperto,” di situazioni di violenza estrema, sempre e soltanto in un’ottica di repressione del “crimine”, negando l’esistenza di altre forme di violenza (subdola, meno visibile o semplicemente giudicata meno intensa) e di altri canali di riconoscimento, costringendo le donne al ruolo di vittime e all’umiliazione di dovere esporre il loro vissuto a sconosciuti burocrati e tutori dell’ordine. Le politiche europee e italiane in materia migratoria colpiscono le donne in triplice forma: in quanto genere oppresso, e in quanto soggetti razzializzati e impoveriti. I documenti fanno parte del dispositivo di ricatto.
Per questo, chi combatte contro il sessismo e il razzismo non può non tenere conto dell’oppressione subita dalle donne migranti, in Italia come ovunque, delle loro lotte e resistenze. E ripartire da qui per trasformare radicalmente l’esistente, mettendo concretamente in crisi quelle frontiere che dividono, anche “in casa nostra”, tra i e le compagn*. Ci sembra necessario innanzitutto osservare i modi in cui il razzismo istituzionale, come quello che si esercita per strada, in famiglia e sul lavoro, colpisca in maniera specifica le migranti, tramite il dispiegamento di dispositivi di oppressione, controllo e sfruttamento. Contemporaneamente e attraverso questa consapevolezza, diventa indispensabile creare dei legami di solidarietà reale con le migranti al fine di individuare degli strumenti di diffusione delle loro rivendicazioni o di potenziamento delle lotte che decidono di intraprendere.
Non si tratta solo di fare della teoria: crediamo che in questo momento, in Italia, manchino pratiche e rivendicazioni che vedono le migranti come protagoniste reali, e non solo come “appendici” delle lotte dei migranti maschi, o come simbolo retorico di tutte le dominazioni – un simbolo talmente astratto che magari non si parla neppure con queste donne in carne e ossa. Le donne immigrate da sempre e costantemente lottano contro i dispositivi che ne gestiscono la mobilità: ricordiamo tutte le proteste portate avanti nei campi, alla frontiera, nei centri di accoglienza (prima o seconda che sia) e all’interno dei CIE/CPR, attraverso resistenze quotidiane, rivolte e fughe, individuali e collettive. Passando alle lotte nei posti di lavoro, dove spesso lo sfruttamento lavorativo e salariale è accompagnato a violenze psico-fisiche (si pensi ad esempio alle lotte delle donne, in maggioranza migranti, nei magazzini di Italpizza e Yoox), senza dimenticare le numerose lotte per aver garantito l’accesso ai servizi essenziali.
Documenti, accoglienza e debito
Occorre quindi, prima di tutto, riconoscere che le politiche migratorie e il sistema dei centri non sono solo il volto del razzismo, ma anche del sessismo istituzionale. Per questo, non si può agire dall’interno in senso riformista, cercando di rendere più umana l’accoglienza o più efficace l’antitratta. Noi crediamo che si debba intervenire alla radice: ricominciare a lottare per la libertà di circolazione e per quella di restare dove si vuole, per i documenti per tutte.
Le scelte dei governi in materia di immigrazione e gestione della mobilità hanno provocato un vasto cambiamento rispetto alle alternative delle persone che decidono di migrare o sono costrette a farlo, incanalandole in percorsi di vita obbligati e con poche possibilità di costruirsi una vita reale. Obbligate a spostarsi da un centro d’accoglienza ad un altro, in balia dei tempi d’attesa delle commissioni territoriali e dei tribunali con i ricorsi – dato che nella maggior parte dei casi le domande d’asilo vengono respinte. All’interno di questi centri le persone sono condizionate in ogni aspetto della loro vita: non possono deciderne gli orari, cosa mangiare e quando, spesso si trovano in posti isolati e poco abitati, senza alcuna prospettiva di svago, di imparare la lingua italiana o di lavorare.
Ovviamente il sistema di controllo dei tempi di vita è ancora più pervasivo se si tratta di donne sole o con bambini. Ciò è evidente se si guarda alle conseguenze della permanenza in accoglienza, ad esempio, sulla vita sessuo-affettiva: il divieto di ospitare persone durante la notte o di poter dormire fuori dalla struttura è eloquente. Ma quando si tratta di donne, la sorveglianza è rafforzata, lo stigma della prostituta è sempre presente ed è utilizzato per restringere ancora di più gli spazi di libertà delle migranti. In molti centri è ancora più difficile del normale accedere all’aborto o a visite specialistiche, perché gli operatori e le operatrici o non trasmettono le informazioni o si oppongono a queste pratiche (in particolare nelle strutture legate alla Chiesa).
Sempre più spesso, inoltre, la permanenza nel circuito dell’accoglienza viene interrotta come misura ritorsiva contro chi protesta per le condizioni di vita nei centri o per i lunghi tempi di attesa. Per inciso, queste proteste si susseguono senza sosta da anni, ma i e le militanti italiane solo raramente se ne sono interessati, in ragione di una posizione ambigua sull’accoglienza e sull’antitratta.
Nella maggior parte dei casi l’uscita dal circuito dell’accoglienza avviene senza l’ottenimento del tanto agognato permesso di soggiorno e molto spesso si finisce a vivere nei numerosi ghetti che costellano il paese, nelle periferie e nella provincia intorno alle grandi città, così come nei distretti agro-industriali: lontane dai controlli delle forze dell’ordine e con la certezza almeno di un tetto sopra la testa.
Le migranti nigeriane, dalla gabbia dell’antitratta…
Nella nostra esperienza di lotta a fianco delle persone migranti che vivono e
lavorano nei distretti dell’agroindustria, la presenza delle donne, nella
stragrande maggioranza nigeriane, ha rappresentato una costante, seppure in
minoranza rispetto a quella maschile. Tuttavia, se le migranti non sono mai
state assenti dai conflitti che hanno attraversato questi territori, spesso i
meccanismi specifici della loro oppressione sono stati invisibilizzati. Se la
loro voce non è mai mancata nelle assemblee e nei cortei, una riflessione più
profonda su come ripensare rivendicazioni e conflitti reali assumendo un punto
di vista di genere e antirazzista è quantomai necessaria e non più rimandabile.
Le migranti che abitano nei ghetti di questo Paese, come e più delle donne migranti in altri contesti, subiscono ogni giorno gli effetti delle politiche razziste e sessiste, che le colpiscono e le precarizzano ancor più dei migranti maschi. In questi anni ci siamo trovati nella condizione di incrociare e conoscere moltissime donne che vivono nei diversi ghetti del foggiano o nella Piana di Gioia Tauro, alcune insediate da anni, altre di recente arrivo. Moltissime di loro si sono spostate da una parte all’altra del Paese ed alcune continuano a farlo; moltissime sono passate nella loro vita nei centri di accoglienza, CAS o SPRAR e tutte ne sono poi uscite, perché era finita per loro la possibilità di restare lì o molto spesso perché sceglievano o erano costrette da chi deteneva il loro debito a scappare da un sistema, già di per sé estremamente coercitivo, che nei confronti delle donne mostra con maggiore enfasi la sua violenza paternalista e colonialista.
In Italia, quando si sente parlare di donne nigeriane, l’associazione con la tratta è praticamente immediata. Quello che viene nascosto è che il ricatto del debito esiste perché non è possibile, per queste donne, migrare legalmente in Italia. Sono le politiche migratorie nazionali e europee, i loro visti, le loro frontiere, le loro missioni militari “contro il traffico di esseri umani”, come anche gli strumenti della cooperazione internazionale e le ingerenze politiche nei paesi di origine (particolarmente emblematico il caso della Nigeria, dove l’Italia coltiva vasti interessi non soltanto nel settore del petrolio), che riproducono di fatto relazioni di dipendenza e dominazione. La precarietà delle donne migranti viene sempre spiegata come l’effetto di reti criminali, composte ovviamente solo da connazionali e migranti, come se il patriarcato fosse un’importazione dall’estero.
Di fronte a tali reti è stato costruito l’arsenale dell’antitratta, che pretende di “salvare” queste donne richiudendole in centri dove la loro quotidianità, i loro movimenti e i loro comportamenti sono controllati in maniera infantilizzante e paternalista. Di fatto, in molti casi si pretende di rieducare le “vittime di tratta” al ruolo di servitrici domestiche (mentre la prostituzione, alternativa più remunerativa, esclude le donne dai programmi antitratta), riproducendo la distinzione tra donne per bene e donne per male, oltre che una logica classista, sessista e razzista per cui una donna africana non può che svolgere mansioni di servitù: prostituirsi non va bene, invece doversi occupare 24 ore su 24 di un anziano disabile, che magari sottopone la sua badante a molestie e pretese di natura sessuale, questo sì che è dignitoso e permette di “integrarsi” nella società.
Come se non bastasse, essere riconosciuta come vittima ed ottenere il supporto di istituzioni e associazioni è tutt’altro che scontato, a fronte di una altissima prevalenza di storie di ricatto e sfruttamento a cui la stragrande maggioranza delle donne nigeriane è sottoposta. A questo fa da contraltare una macchina di detenzione e deportazione che, al contrario dell’antitratta, per le donne nigeriane funziona benissimo. Occorre non solo essere docili e disciplinate, ma anche “collaborative” con un sistema improntato alla delazione e alla repressione, che mette le donne a rischio e le ricatta ulteriormente.
… ai ghetti nelle campagne
Le traiettorie migratorie delle donne nigeriane sono particolarmente emblematiche di come il regime di controllo dei confini e della mobilità si abbatta sulle donne razzializzate e rese povere in maniera brutale. Per poter giungere in Europa, nella stragrande maggioranza dei casi le donne nigeriane sono costrette ad accettare contratti capestro attraverso i quali si indebitano per decine di migliaia di euro e affrontano viaggi disseminati di violenze, per poi spesso ripagare quanto dovuto attraverso l’unica professione che possono sperare di esercitare in Italia, quella di prostitute di strada a bassissimo costo, esposte anche qui a molteplici forme di violenza.
E proprio in ragione del perverso e labirintico meccanismo dell’accoglienza, oltre che del debito di cui sono portatrici, le donne nigeriane spesso non effettuano richiesta d’asilo e fuggono dai centri di accoglienza. Alcune si rifugiano quindi nei ghetti che sorgono all’interno delle enclavi dell’agro-industria, popolati da una maggioranza di migranti africani impiegati in agricoltura. Qui possono sperare di nascondersi dai loro creditori o dalla polizia, oppure semplicemente trovare uno spazio comunitario (ancorché non privo di dinamiche di sfruttamento e gerarchie, oltre che gravemente carente da un punto di vista infrastrutturale) in cui il costo della vita risulta più abbordabile.
La fuga e il rifugio nei ghetti ovviamente non mettono al riparo dal patriarcato, che è trasversale a tutta la società, e rafforzato dal razzismo e dalla povertà. La vita delle donne nei ghetti lo illustra bene: qui si riproduce in maniera estremamente evidente la divisione dei ruoli di genere, aggravata dalla razzializzazione e dalla condanna a vivere in condizioni di estrema difficoltà per via del ricatto del debito. Nel foggiano come nella Piana di Gioia Tauro le donne svolgono un lavoro di riproduzione e cura nei confronti degli uomini: cucinando e tenendo la cura degli insediamenti, vendendo prestazioni sessuali a bassissimo costo, magari per ripagare un debito, lavorando nelle fabbriche di trasformazione con contratti irregolari, subendo sul lavoro moltissime insidie, abusi, ricatti sessuali per poter restare a lavorare o ricevere la paga, fino ad arrivare a stupri e violenze e anche al femminicidio.
Questa condizione è resa ancora più fragile dal rigetto sistematico delle loro domande d’asilo, fatto che le espone ancora di più alla precarietà e che mostra tutta l’ipocrisia di chi (ministri e commissari vari) proclama di voler “salvare” queste donne, per poi condannarle all’immobilità e alla segregazione. Un ulteriore elemento di precarizzazione è legato alle tipologie di lavoro che sono loro assegnate: sono lavori fortemente stigmatizzati e invisibili, ignorati completamenti da sindacati e dintorni che hanno una visione molto ristretta e patriarcale di cosa sia un lavoro. Si può parlare delle nigeriane nei ghetti solo per descriverle come vittime o come criminali, negandole costantemente come lavoratrici.
È ovviamente un problema politico, come confermano i recenti casi di sgomberi, totali o parziali, delle baraccopoli a San Ferdinando e Borgo Mezzanone, che hanno mostrato ulteriormente come il razzismo istituzionale abbia come suo contraltare naturale la discriminazione sessista, in duplice forma. Prima di tutto, la presenza in questi luoghi di lavoratrici del sesso costituisce spesso uno dei motivi per precedere agli sgomberi e alla “pulizia” di alcune aree, identificando nei luoghi dove le donne lavorano i centri per eccellenza della criminalità e del degrado, da eliminare ed estirpare. Inoltre, laddove sono state distrutte baracche sedi di locali notturni – azioni accompagnate dalla propaganda istituzionale che si fregiava di non aver distrutto alcuna abitazione, ma solo centri di illegalità – le donne sono state, nei fatti, le persone più colpite perché hanno perso la loro unica fonte di sostentamento, l’unica possibilità che al momento hanno per ripagare un debito che le strozza.
Le donne che si prostituiscono quindi sono allo stesso tempo causa dichiarata di azioni di riqualificazione ed interventi delle forze dell’ordine per ristabilire controllo e decoro, e vittime di questi stessi atti, perché nei fatti sono le prime a restare senza lavoro o fonte di reddito e costrette spesso a spostarsi altrove. La guerra proclamata dalle autorità contro “traffici illeciti e prostituzione”, senza intaccare in nessun modo le cause dello sfruttamento e dell’oppressione, è combattuta in realtà contro le migranti stesse. La loro esistenza è resa invisibile: neppure gli sciacalli con le telecamere o le tessere sindacali sembrano interessarsene. Quando si prospettano “alternative abitative” (campi di lavoro ad alta sorveglianza), le donne vengono automaticamente escluse, cancellate dal discorso e dall’immaginario pubblico.
Quali prospettive di lotta?
Le condizioni estreme vissute da queste donne invitano a ripensare in senso più globale lo sfruttamento del lavoro affettivo, sessuale e di cura delle donne, non solo migranti. Questo sfruttamento è trasversale a tutti i contesti – quello lavorativo, quello domestico e intimo, quello istituzionale e pubblico – ma agisce con forme di violenza diversa secondo le linee della classe e della razza. Riconoscere i punti comuni ma anche le specificità è il primo passo per lottare assieme, sperimentando delle pratiche e delle rivendicazioni che lo rimettano interamente in causa. Occorre sviluppare pratiche realmente femministe, che partano dall’ascolto, dalla relazione e dalla riflessività, e che siano materialmente radicate nei contesti di vita e di lavoro delle donne che chiamano in causa. In questi anni, troppo spesso si è trascurato questo elemento, sintomo che anche le pratiche militanti sono soggette a forme di patriarcato e razzismo di cui dobbiamo farci carico in senso critico.
Le prospettive oggi restano fosche, sono pochi gli strumenti e gli esempi che abbiamo a disposizione. Come sostenere chi decide di combattere contro il ricatto del debito, quando l’unica alternativa sembra essere la segregazione istituzionale dell’antitratta? Una postura solo teorica e “purista” non cambierà i rapporti di forza: abbiamo bisogno di spazi autonomi, di reti di solidarietà reale, e di rimboccarci le maniche.
Il primo passo per costruire un percorso di lotta insieme impone di partire delle condizioni di vita delle dirette interessate, incontrandole e confrontandosi. Sembra una banalità ma, ad oggi, sono poche le situazioni in cui questi incontri avvengono. Ancora una volta, quando vengono nominate queste donne migranti (ed è raro), si tende a parlare a nome loro; se non si stigmatizza, spesso si fa l’opposto, si riproducono visioni eroiche altrettanto stereotipate che sono, in ultima analisi, discriminatorie. La condivisione, la costruzione di rapporti di fiducia e di lotta, mancano terribilmente. Senza questo primo passaggio non è possibile mettere in atto percorsi di lotta orizzontali e realmente sovversivi.
Al contempo, incontrarsi non basta. È indispensabile a nostro avviso partire dalla consapevolezza della propria posizione di privilegio in quanto donne e uomini bianchi, che non sono costrette a lottare ogni giorno per la sopravvivenza e contro il razzismo. Questa consapevolezza impone quindi di trasformare le proprie pratiche, di riflettere sui proprio riflessi coloniali, su come si costruiscono e si raccontano le lotte, sulle rivendicazioni e le strategie (in altre parole, chi parla e decide per chi e chi fa cosa nelle assemblee, nei cortei, nei comunicati).
Senza però che questo diventi una comoda scusa per evitare di sporcarsi le mani con le tante contraddizioni della realtà. In ambito militante, le analisi critiche sul proprio privilegio – razzista, sessista, classista – sono molto rare e restano per lo più simil-accademiche, ma cominciano a svilupparsi. Tuttavia, spesso il riconoscimento di questi privilegi sembra suggerire l’impossibilità di lottare con chi è più oppressa di noi: possiamo parlare di loro, di questa alterità irriducibile, ogni tanto possiamo narrare le loro resistenze, ma lottare per cambiare collettivamente le cose resta, apparentemente, un nostro… privilegio. Al contrario, occorre far sì che il nostro privilegio, da confine e ostacolo diventi arma di solidarietà e di lotta, per sperimentare pratiche realmente non coloniali: questo è un invito per tutte e tutti al confronto e alla costruzione di pratiche di lotta.