Contro confini e sfruttamento, si riparte con le lotte!
Il 12 novembre 2016 lavoratrici e lavoratori, disoccupati e precarie, stranieri e italiani, dalle campagne e dai magazzini della logistica, dalle occupazioni di case e dai centri d’accoglienza, sono scesi in piazza a Roma per dire no ad un regime di controllo della mobilità che crea sfruttamento e segregazione. Mai come oggi, dopo le ultime scellerate proposte del nuovo Ministro dell’Interno, Marco Minniti, ma anche in ragione dell’orientamento dell’Unione Europea nel suo complesso in materia di immigrazione, e visti gli inquietanti scenari internazionali apertisi con l’elezione di Trump negli Stati Uniti e la Brexit, quelle rivendicazioni e alleanze appaiono necessarie.
D’altra parte, questi eventi e i soggetti che ne sono protagonisti sono parte di uno scenario molto più ampio e di lunga durata. E certo non ci fidiamo dei proclami: riteniamo quelle di Minniti parole dettate dalle necessità populistiche di propaganda pre-elettorale, tutta improntata su un discorso securitario volto a ‘tranquillizzare’ l’opinione pubblica dopo gli attentati di Berlino. Molte delle misure annunciate – dagli accordi bilaterali con la Libia alle deportazioni di massa – sono peraltro ritenute inapplicabili da diversi esponenti delle istituzioni stesse, in Italia e fuori. Ma le prospettive, come del resto l’attuale stato di cose, non lasciano dubbi. I rimpatri forzati e gli accordi bilaterali, la detenzione amministrativa di chi è stato privato dei documenti o il lavoro gratuito per i richiedenti asilo non sono realtà di là da venire, ma pratiche assolutamente all’ordine del giorno in questo paese. Semmai, il problema politico-amministrativo attuale appare essere quello di intensificarle e renderle più efficienti, essendo al momento ben al di sotto delle soglie a cui auspicano, a parole, non soltanto il governo italiano e la quasi totalità dei partiti politici, ma in primis quella Unione Europea che più o meno efficacemente detta le politiche migratorie a tutti gli stati membri.
D’altra parte, è ben chiaro al capitale come a chi governa che, nonostante i discorsi securitari, i migranti sono una fonte di profitto di cui non si può fare a meno: come (s)oggetti dell’apparato militare-umanitario, dagli hotspot agli hub, dai centri d’accoglienza ai CIE, da una parte, e dall’altra come forza-lavoro a bassissimo costo e con pochi, anzi spesso nessun diritto, necessaria alla riproduzione di un continente ‘vecchio’ in tutti i sensi. Si tratta, a ben vedere, di due facce della stessa medaglia. Rimane quindi vero, come lo è sempre stato, che le politiche migratorie improntate sulla criminalizzazione e la chiusura sono funzionali più a rendere i e le migranti ricattabili, e contemporaneamente a regolarne l’intensità dei flussi a seconda del fabbisogno, che non a tenerli fuori dai confini europei tout court.
È altrettanto vero, però, che l’inefficacia delle politiche di contenimento e respingimento è principalmente da imputarsi alle lotte portate avanti da chi ne ha subito gli effetti sulla propria pelle. È questo ci che ci interessa e che ci muove, ed è questo che fa paura alla controparte. Le politiche repressive, specchio proprio di questa paura, appaiono sempre più generalizzate, attraverso l’applicazione e l’affinazione di strumenti via via più invasivi e subdoli contro le classi subalterne e contro chi lotta. D’altronde, Minniti stesso ha espressamente legato l’ampliamento dell’“arcipelago CIE” al contenimento della pericolosità sociale, estendendo ulteriormente il principio per cui si possa esercitare un controllo arbitrariamente repressivo attraverso formule amministrative che fanno dell’eccezione la regola.
Da quel 12 novembre, continuiamo a chiedere conto al ministero di quanto promesso in sede di incontro, consapevoli che soltanto con le lotte potremo ottenere reali cambiamenti. Ci prenderemo quello che ci spetta, e non ci faremo intimidire mai. Ci vediamo nelle strade, nelle piazze, nei quartieri e nei ghetti, fuori da qualsiasi prigione o ghetto!