Un’altra stagione di sgomberi e sfruttamento nelle campagne italiane: costruiamo nuovi fronti di resistenza.

È di nuovo estate, è di nuovo tempo, per i nostri media, di gettarsi sulle campagne e su lavoratrici e lavoratori sfruttati, come iene su una carcassa, per poi dimenticare di nuovo tutto. Fino alla prossima estate.

Per questo, nel pieno della stagione di raccolta, riteniamo necessario proporre uno sguardo d’insieme su che cosa si muove nelle campagne italiane. Con l’obiettivo non tanto di constatare la drammaticità della situazione, quanto di mettere in evidenza le connessioni sempre più strette tra territori, tra dinamiche di razzismo e di sfruttamento, e quindi tra le lotte da seguire e supportare. 

Partiamo dal Piemonte: ad Alba i lavoratori essenziali alla produzione dei grandi vini d’eccellenza delle Langhe sono stati buttati per strada. Prima con lo sgombero del residence della stazione, dove stanze inabitabili e senza utenze venivano affittate a prezzi esorbitanti. Poi con la chiusura del centro di prima accoglienza gestito dalla Caritas, che, come ogni anno ad agosto, mette fuori gli ospiti senza troppe remore. Quest’anno il comune ha aperto una palestra scolastica per 40 giorni, dalle 6 di sera alle 8 del mattino. Una piccolissima pezza che non basta a coprire la voragine aperta nelle Langhe dello sfruttamento, sempre più difficile da nascondere. Per questo un corteo sabato scorso si è preso le strade della città in solidarietà con le lotte dei lavoratori delle campagne. Per evitare che soluzioni tampone e proclami di finta indignazione che imprenditori, istituzioni e terzo settore mettono in piazza per salvarsi la faccia soffochino le rivendicazioni di chi da anni chiede contratti giusti, case vere, documenti, libertà. E per puntare il dito contro i responsabili dello sfruttamento nelle campagne; che non sono soltanto le mele marce, ma tutta la filiera agroalimentare. Partendo dalla Coldiretti, che sul territorio è l’associazione rappresentante degli interessi padronali, sempre muta quando viene interpellata e sempre assente dal dibattito. 

Ad Alba per una volta la vetrina delle Langhe è stata sporcata, la quiete della città gioiello del turismo di alta classe scombussolata per una sera: in tanti hanno fatto domande per strada, alcuni lavoratori si sono uniti al corteo. C’è chi ha raccontato le stesse lotte in corso in altre parti d’Italia. 

A pochi chilometri di distanza infatti, nel saluzzese, i lavoratori accampati al Parco Gullino da ormai più di due mesi di giorno raccolgono pesche e mirtilli, di notte dormono all’addiaccio. Le accoglienze diffuse previste dal protocollo regionale hanno aperto anche quest’anno con evidente ritardo: l’ultima, la casa del cimitero di Saluzzo, è stata aperta il primo agosto, nonostante la stagione di raccolta dei piccoli frutti sia iniziata a fine maggio. I posti in accoglienza in tutto il distretto della frutta sono comunque poco più di 200, a fronte di migliaia di braccianti che arrivano sul territorio per la stagione. In molti lamentano di non trovare un posto in accoglienza perché il datore di lavoro si rifiuta di versare il contributo di 3,50 euro al giorno (peraltro previsto nei contratti collettivi provinciali), mentre altri non trovano un ingaggio perché i padroni si rifiutano di stipulare un contratto con chi non ha un posto per dormire. È un gioco perverso che tiene i braccianti sotto il doppio ricatto di casa e contratto, due requisiti interdipendenti e sempre precari. Chi resta fuori a dormire viene quotidianamente controllato, trattato da indesiderato e da problema di ordine pubblico.

La stessa situazione si riproduce quasi come una fotocopia ovunque in Italia, e lo raccontano i lavoratori stessi che stagione dopo stagione passano da un ghetto ad una tendopoli, da uno sgombero all’altro, dalla Sicilia alla Piana di Gioia Tauro, dalla Capitanata alla Basilicata.  Nella zona del Vulture Alto Bradano, in provincia di Potenza, proprio mentre sta per iniziare la raccolta dei pomodori, il 29 luglio è stato sgomberato il capannone dell’ex-Tabacchificio. La struttura era già un centro d’accoglienza, riaperto nel 2020 e finanziato dalla Regione Basilicata dopo giorni di proteste dei lavoratori delle campagne che nel pieno dell’emergenza Covid si ritrovarono a dormire per strada. Quest’anno l’ex-Tabacchificio è stato improvvisamente dichiarato inagibile per la presenza di amianto e di rifiuti, i lavoratori quasi incolpati dell’inagibilità e buttati fuori un’altra volta, mentre i bandi destinati ai comuni per accedere a fondi per all’accoglienza degli stagionali sono andati deserti. Non si può andare nemmeno nelle case abbandonate del borgo di Mulini-Matinelle, che negli anni era diventato un insediamento informale, ma che già dal 2020 è presidiato dai carabinieri per impedire alle persone di entrarci. Nessuna alternativa abitativa è stata trovata per ora: solo grazie alle proteste insistenti una parte dei lavoratori sgomberati ha trovato un posto in Caritas, ma molti rimangono ancora fuori e senza sapere che cosa succederà a tutti fine stagione. Nel frattempo, tre giorni fa è morta un’altra persona proprio nel CPR di Palazzo San Gervasio. Si chiamava Belmaan Oussama. L’ennesima morte che ci impone di legare le lotte nelle campagne e le rivolte quotidiane nei centri di detenzione per immigrati, nelle carceri, nei campi di stato. Di porci fermamente in solidarietà con chi si ribella e contro tutti quei dispositivi che hanno lo scopo di controllare le persone immigrate per sfruttarle quanto più possibile, reprimerle quando protestano, incarcerarle o deportarle per legittimare politiche razziste e alimentare il business dell’ “accoglienza” e della detenzione. Le morti nelle campagne, le morti alle frontiere e quelle nei CPR, non devono restare scollegate: tutte sono, anche se in modo diverso, dovute alla marginalizzazione, alla precarietà di vite che dipendono da politiche migratorie che impediscono alle persone immigrate di entrare in Europa, di lavorare regolarmente, di ottenere e mantenere un permesso di soggiorno. 

Per mettere in pratica queste importanti connessioni tra le forme di repressione e le lotte antirazziste, mentre in Basilicata i lavoratori venivano sgomberati per l’ennesima volta, il 29 luglio a Torino una presenza solidale portava la rabbia per le morti nei campi e nelle prigioni davanti alla sede di Confagricoltura, uno dei massimi rappresentanti dell’agricoltura capitalistica italiana. 

È significativo del disprezzo dei lobbisti delle campagne italiane per chi le lavora il fatto che, ad un mese e mezzo dalla morte di Satnam Singh, le associazioni di categoria della Capitanata, tra cui Confagricoltura e CIA Agricoltori Italiani, abbiano chiesto in una lettera una modifica alla legge in materia di sicurezza e di salute nei luoghi di lavoro per favorire sostituzioni più rapide in caso di assenza (e quindi anche di sciopero) dei lavoratori, e che siano i lavoratori stessi a farsi carico delle spese per i dispositivi di protezione individuale.  

E se sull’onda dell’indignazione momentanea per la morte di Satnam le cronache locali da nord a sud sono piene di interventi delle forze dell’ordine che scovano nuovi casi di sfruttamento estremo, i risultati delle ispezioni spesso non sono solo sanzioni per le aziende, ma anche per le lavoratrici e i lavoratori sfruttati, che oltre a perdere il lavoro vengono denunciati perché privi di un regolare permesso di soggiorno. Denunce assurde, ma che vanno di pari passo con le nuove linee guida dettate dal decreto di semplificazione dei controlli sulle attività economiche, di cui l’Ispettorato del Lavoro ha dato nota il 31 luglio. Un decreto fatto per andare incontro ai padroni, che introduce la possibilità di sanare una violazione amministrativa con semplice diffida, e di programmare i controlli in base a diversi gradi di “rischio” per le aziende, per controlli “meno invasivi”, così dice il testo, addirittura previa comunicazione.

Queste sono le risposte istituzionali allo sfruttamento. Inutili sono e inutili saranno tutti i tavoli contro il caporalato che nascono e muoiono nelle sale delle Prefetture di mezza Italia, se gli interventi non tengono mai in conto dei reali bisogni di lavoratori e lavoratrici. Se i fondi del PNRR destinati al superamento dei ghetti restano bloccati o vengono impiegati per container e tende, e se ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno diventa sempre più difficile.

Per questo è necessario continuare a mettere in connessione le lotte e le rivendicazioni di chi in Italia e altrove resiste coraggiosamente a razzismo e sfruttamento, dalle campagne ai quartieri, dalle frontiere ai ghetti, dalle carceri ai CPR.