Contro le devastazioni ambientali dell’agro-industria Made in Italy, le lotte di lavoratori e lavoratrici sono un tassello cruciale

In questo paese, in linea con quanto accade nel resto del globo, l’agricoltura industriale e le filiere agroalimentari controllate dai colossi della trasformazione e della distribuzione sono un agente primario di sfruttamento delle persone e del territorio. Sfruttamento che, oltre a danneggiare l’ambiente, colpisce in primis i soggetti più deboli – lavoratori e lavoratrici del comparto, spesso migranti e donne. L’uso indiscriminato di pesticidi ed altri agenti tossici espone chi lavora nelle campagne e nelle serre a gravi rischi per la salute, e nella maggior parte dei casi i datori di lavoro non forniscono nemmeno le precauzioni più elementari, previste anche dalla legge, per tutelare i loro dipendenti.
Anzi, per effettuare i lavori più rischiosi si scelgono le categorie più vulnerabili, quelle che non hanno altra scelta se non accettare condizioni terrificanti – donne, migranti, poveri. Persone che in molti casi hanno lasciato i loro paesi di origine proprio perché le devastazioni ambientali compiute dai grandi capitali hanno sottratto loro le fonti primarie di sostentamento (a tale riguardo, si pensi a quel che accade nel Delta del Niger, e alle responsabilità di Eni e degli italici burocrati suoi protettori). Una volta giunte in Europa, queste stesse persone si vedono negato anche il diritto ad esistere, ad avere riconosciute tutele e servizi minimi. Spesso sono quindi costrette ad accettare lavori a giornata, pagati, quando va bene (e se si viene pagati), la metà di quanto previsto dai contratti di categoria. Molti vivono in baracche, spesso fatte di Eternit (un’azienda italiana che tutt’ora produce materiale edile in Nigeria ed in altre parti del globo, nonostante la tossicità dell’amianto sia stata legalmente riconosciuta) e soggette a periodici incendi che sprigionano fibre letali e altri fumi tossici. In più, nei ghetti dell’agroindustria anche l’accesso all’acqua potabile può diventare un lusso, e più volte lavoratrici e lavoratori hanno dovuto inscenare proteste perché fosse loro garantito. Chi vive in questi luoghi non muore soltanto arso vivo, o magari linciato da qualche autoproclamato giustiziere suprematista, oppure di fatica sui campi, o mentre si va o si torna dal lavoro su mezzi fatiscenti, stipati come sardine. Si muore anche di cancro e di altre malattie contratte a causa delle condizioni di vita e di lavoro, per cui peraltro è difficile ricevere le cure, specialmente quando si è ‘stranieri’.
Ma anche le ed i braccianti italiani a giornata, soprattutto nel Mezzogiorno, sono vittime di un sistema che da oltre un secolo impone il modello industriale, espropriando le comunità dei loro saperi e delle loro risorse e sottoponendole all’assalto di voraci imprenditori senza scrupoli, quelli che portano morte intombando rifiuti tossici e inquinando le falde, nelle stesse campagne su cui poi si producono frutta ed ortaggi. Proprio in questi giorni nel Tavoliere (il più grande distretto agroindustriale italiano dopo la Pianura Padana) si scoprono e si sequestrano le ennesime discariche abusive, che sversano i loro veleni nei canali irrigui delle campagne. Non è che l’ultima puntata in una tragica e lunghissima saga: sempre in quelle terre, a Manfredonia, Anic- Enichem installò nel 1969 uno stabilimento petrolchimico per produrre fertilizzanti da utilizzare nelle campagne. Da allora al 1997 si sono susseguiti numerosi “incidenti”, che hanno provocato numerose vittime tra gli abitanti e devastazione ambientale con incendi, inquinamento di terra, aria e falde acquifere, oltre ad aver danneggiato gli altri settori produttivi dell’economia locale (in primis agricoltura e pesca). Manfredonia nello specifico è stata teatro di una lunga e pervicace lotta della popolazione locale contro il colosso, che va avanti da 40 anni e chiede che vengano pienamente riconosciuti i danni causati da Enichem.
Ma c’è di più. Alcuni dei principali distretti agroindustriali italiani, nello specifico il Tavoliere stesso e la Piana di Gioia Tauro, sono i territori dove oggi dovrebbero sorgere le Zone Economiche Speciali, sbandierate come motore di sviluppo e benessere ma in realtà cavallo di Troia per la legalizzazione dello sfruttamento e della ulteriore devastazione dei territori. Le ZES dovrebbero collegare i distretti del Made in Italy del Mezzogiorno con i corridoi europei, gli stessi che necessitano, secondo i loro ideatori, dei tunnel per l’alta velocità.
Come se non bastasse, le conseguenze dei cambiamenti climatici ed i loro effetti sull’agricoltura vengono utilizzati dai produttori come scuse per giustificare lo sfruttamento di lavoratrici e lavoratori. Ad ogni catastrofe ‘naturale’, dalla grandine alla siccità, dalle epidemie che colpiscono le colture alle gelate fuori stagione dopo ondate di caldo anomalo, gli imprenditori agricoli piangono miseria e cercano di ammortizzare, come sempre, risparmiando sulla forza lavoro. Dopo avere per decenni creduto (a volte forzatamente) alle sirene dell’agricoltura industriale, quella dei pesticidi, dei semi brevettati, dei fitofarmaci obbligatori e dei sussidi per produrre come volevano le grandi multinazionali e i loro agenti politici, si cerca oggi di rifarsi una verginità con una riconversione al biologico tardiva e tutta improntata al profitto. Una riconversione che non ha nulla di etico. Non soltanto si continua a sfruttare la manodopera, magari cercando di legalizzare questo sfruttamento con voucher e ZES, ma ci si affida alla grande distribuzione su filiere globali che fanno percorrere alle merci (imballate e impacchettate, producendo rifiuti) migliaia di chilometri, appunto sui corridoi logistici e le nuove vie della seta. E si punta ad una fetta di consumatori abbienti, perché, lo sappiamo tutti, mangiare sano costa. I poveri si devono accontentare di cibo intriso di veleni.
In questo scenario, è per noi evidente quanto importanti siano le rivendicazioni di lavoratrici e lavoratori dell’agro-industria. Non perché pensiamo che quest’ultima sia ‘riformabile’ – tanto quanto non lo è il capitalismo nel suo complesso -, ma perché per costruire alternativa evidentemente non bastano gli appelli all’agricoltura contadina, i progetti di filiera corta e di logistica partecipata. Da soli, questi rischiano di trasformarsi ancora una volta in nicchie di mercato e di vita per privilegiati. È necessario attaccare i colossi dell’agribusiness da quante più parti possibile, incluso (anzi soprattutto) dall’interno. Chiedere contratti, case, e documenti per chi lavora in campagna è un modo di mettere in evidenza, e in prospettiva di fare esplodere, le contraddizioni di un sistema portatore di morte. Nella battaglia per il clima e contro le grandi opere inutili, le lotte delle lavoratrici e dei lavoratori dell’agroindustria hanno un ruolo fondamentale.