Filiera e Autorganizzazione

Quando parliamo di agricoltura, parliamo di un settore storicamente rilevante per lo sviluppo dell’economia capitalistica ma che oggi sembra avere, nelle economie cosiddette “avanzate”, un ruolo residuale in termini sia di contributo al PIL che occupazionali. In Italia, secondo i dati ISTAT del 2011 (vedi anche Clash City Workers, 2014), l’agricoltura ammonta a poco più del 2% del valore aggiunto e a meno del 4% dell’occupazione. Essa è il settore in cui la retribuzione, regolata da contratti collettivi, è la più bassa in assoluto. Ma, come avremo modo di vedere, le cifre su occupazione e fatturato fornite dalle statistiche ufficiali non tengono conto di dinamiche determinanti, che restituiscono un quadro ben più complesso in cui lo sfruttamento della terra e delle persone hanno raggiunto livelli allarmanti.

Il settore agro-alimentare italiano è stato interessato da una profonda ristrutturazione, che ha conosciuto diverse fasi a partire dagli albori della sua industrializzazione nel XIX secolo, e che può essere compresa soltanto in una prospettiva globale. Nel secondo dopoguerra l’industrializzazione dell’agricoltura, in senso sia chimico che meccanico, ha conosciuto un’impennata, incoraggiata dall’apparato politico-burocratico. Ciò ha significato la progressiva conversione della produzione in senso intensivo e monoculturale, che richiede spesso grandi quantità di manodopera per brevi periodi (come nel cosiddetto “modello californiano”). Nel tempo, poi, la catena agroalimentare si è andata allungando: i beni alimentari sono sempre più prodotti, distribuiti e consumati attraverso le filiere industriali, che legano produttori, lavoratori, intermediari e consumatori dislocati su scala planetaria. In questa prospettiva si rende necessario correggere le cifre relative all’agro-industria, così come l’opinione corrente circa la sua marginalità. La produzione di beni alimentari, se considerata nel suo complesso, copre una fetta importante del sistema produttivo: le attività associate alla “filiera estesa” comprendono diversi settori, dalla chimica di sintesi alla meccanica e alla bio-ingegneria; dall’intermediazione commerciale all’industria dell’alimentare, bevande e tabacco; dalla distribuzione al commercio al dettaglio. In Italia, secondo una ricerca dell‘Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori (Isfol, 2011) la filiera estesa occupa circa 2 milioni e 256 mila lavoratori ‘ufficiali’ (di cui la maggioranza sono impiegati nel comparto del commercio al dettaglio, e a seguire nell’industria alimentare), e genera un valore aggiunto del 17% circa.

Tutto ciò a fronte di un progressivo accentramento della proprietà dei terreni, ma anche del patrimonio genetico delle piante come di altre parti della filiera, soprattutto attraverso la Grande distribuzione organizzata (Gdo). In Europa, a partire dagli anni ’60 la Politica Agricola Comune (Pac) ha favorito questo processo vincolando i sussidi all’estensione dei terreni. Sussidi che, nella grande maggioranza dei casi, rappresentano l’unica reale fonte di guadagno per gli agricoltori, i quali ricevono compensi irrisori per i loro prodotti. I fondi destinati alla Pac ammontano a cifre enormi, sia in termini assoluti che relativi: nel 2014 hanno rappresentato circa il 40% del budget dell’Unione, pari a 58 miliardi di euro (a proposito si veda The EU explained: Agriculture, 2014).

La crisi finanziaria ha poi esacerbato i processi speculativi sulla produzione di cibo e sulla rendita fondiaria, i quali hanno portato ad una ulteriore concentrazione dei terreni agricoli, e di tutta la filiera, in poche mani. In quest’ottica, è interessante notare come il settore agricolo italiano abbia risentito meno della crisi economica rispetto ad altri settori, grazie soprattutto all’esportazione di prodotti trasformati, rimasta relativamente stabile, mantenendo livelli di occupazione sostanzialmente invariati. Ma le aziende a conduzione familiare, le piccole e medie imprese agricole (ancora la maggioranza in Italia) riescono a sostenere sempre meno la competitività del mercato e, quando non scompaiono, per sopravvivere tendono a consorziarsi in diverse forme. Tra queste, le Organizzazioni di Produttori Agricoli (O.P.) giocano un ruolo preponderante, agendo come organismi con personalità giuridica che si occupano di programmare la produzione e di accrescere il potere contrattuale nei confronti della Gdo. Sono loro che traggono i maggiori benefici dallo sfruttamento delle terre e dei lavoratori. In alcuni casi, ad esempio, le O.P. forniscono le sementi ai produttori o gestiscono direttamente la manodopera tramite forme più o meno legalizzate di intermediazione (dalle cooperative ai caporali).

In Italia come altrove, a fronte di un progressivo abbandono delle terre da parte di braccianti e piccoli proprietari – che negli anni ’50 e ’60 del XX emigrarono in diverse parti d’Italia e d’Europa e si urbanizzarono –, la richiesta di forza lavoro è stata sopperita principalmente da manodopera di origine straniera, soprattutto a partire dagli anni ’80 del secolo scorso. Com’è noto, questa categoria di lavoratori subisce gravi condizioni di sfruttamento, precarietà e isolamento. Vari meccanismi concorrono a creare tali condizioni: l’espansione del modello neoliberista ha determinato l’impoverimento di masse di contadini (e non solo) in diverse parti del globo, favorendone l’esodo alla ricerca di un salario. Contemporaneamente, le leggi sull’immigrazione hanno introdotto un ulteriore strumento di ricattabilità, creando un bacino di manodopera a bassissimo costo e senza diritti. Lo stesso processo è stato riprodotto negli anni 2000 con l’allargamento dell’Unione Europea a paesi come Polonia, Romania e Bulgaria. Negli ultimi anni, per via della loro maggiore mobilità, in agricoltura i lavoratori “neocomunitari” sono aumentati esponenzialmente, in un mercato del lavoro segmentato su base “etnica”, “razziale” o nazionale. Come se non bastasse, la crisi economica e le guerre aggiungono pressione sul mercato delle braccia. Tali meccanismi non fanno che consolidare la già spiccata tendenza del lavoro agricolo a sfruttamento e irregolarità, per cui molti lavoratori non sono contrattualizzati o comunque non beneficiano delle garanzie previste dai contratti collettivi. In questo quadro, ottenere stime attendibili sugli occupati in agricoltura è molto difficile. Nonostante ciò, diversi studi attestano sul 25% la percentuale dei lavoratori completamente irregolari (Isfol, 2011). Va detto però che, in termini statistici, le elevate quote di irregolarità sono compensate almeno in parte dal fenomeno dei cosiddetti falsi braccianti (cittadini italiani che per ottenere benefici previdenziali aprono ingaggi agricoli fasulli con la complicità dei titolari di aziende).

Inoltre, la segmentazione della forza lavoro avviene anche attraverso la sua segregazione fisica, anche qui organizzata su base “etnica” e “razziale”, in condizioni abitative drammatiche che vengono però più o meno normalizzate (si pensi ai ghetti, istituzionalizzati o meno, situati nelle zone di raccolta, in Puglia, Calabria, Sicilia, Piemonte, per citare i casi più emblematici, molto simili a quelli che si possono trovare in Andalusia o nelle zone rurali del sud della Grecia). Allo sfruttamento lavorativo dei migranti si aggiunge infatti un sistema di messa a profitto delle loro stesse vite ed esigenze riproduttive (il cibo, l’abitare, la sessualità, le cure mediche…) da parte di diversi attori sociali, che a volte appartengono alle stesse istituzioni. Specialmente per i lavoratori di origine sub-sahariana, sono le amministrazioni locali, lo stato e il terzo settore a mettere in campo dispositivi di tipo emergenziale estremamente redditizi, quali le tendopoli o i campi container (con i presunti “servizi” ad esse connessi), che governano la mobilità e il lavoro di chi li abita.

La nostra esperienza politica come rete Campagne in Lotta (composta da lavoratrici e lavoratori precari/e, sia italiani che stranieri, sparsi sul territorio nazionale e oltre – si veda campagneinlotta.org) prende le mosse proprio dalla necessità di supportare percorsi di autorganizzazione nell’ultimo anello della filiera agro-industriale italiana, da Nord a Sud. Oltre a proporre strumenti quali le scuole di lingua, la distribuzione di materiale informativo, l’orientamento legale, le assemblee, le forme di sostegno alle quotidiane rivendicazioni sul posto di lavoro, una delle pratiche necessarie al nostro agire politico è proprio la ricostruzione della filiera agro-industriale. Un compito reso difficile, anche localmente, dalla sua struttura complessa, generalmente oscura anche agli occhi delle istituzioni, non da ultimo per effetto di una legislazione ingiusta e inadeguata. Leggi che sono applicate in maniera arbitraria e funzionale agli interessi di chi è in grado di esercitare pressione politica, e quindi delle grandi imprese e delle associazioni di categoria, alle cui esigenze anche i sindacati spesso si piegano.

Alla luce del quadro descritto, un salto di qualità nelle forme di auto-organizzazione e conflitto coincide con la necessità di uno sforzo conoscitivo, che da subito ha mostrato di non poter prescindere dall’aiuto dei lavoratori, ma anche dei contadini che combattono per rimanere fuori da queste logiche. Sono già stati messi in piedi dei percorsi di con-ricerca, ad esempio la ricostruzione della complessa filiera del pomodoro da industria, che lega la mano d’opera sfruttata (in gran parte comunitaria) nelle terre del foggiano alle aziende di trasformazione campane, per poi essere distribuito su scala globale. Tali percorsi vanno ampliati e rafforzati.

L’alleanza fra i lavoratori salariati della terra e i contadini che rifiutano il modello produttivo capitalista è pertanto auspicabile, non soltanto come strumento per acquisire conoscenze ma soprattutto per individuare, a partire da queste, efficaci strategie di resistenza. Un fronte comune contro lo strapotere della grande distribuzione e delle multinazionali è necessario perché si rovescino i rapporti di forza. Le pratiche di contrasto devono necessariamente diversificarsi: il recupero delle terre (secondo un modello che superi la gerarchia tra padroni e lavoratori), la riorganizzazione dal basso della produzione e della distribuzione (l’accorciamento della filiera) e il consumo critico devono andare di pari passo con pratiche di mutualismo, che permettano ai lavoratori iper-precari della terra di uscire dall’indigenza, dall’isolamento e dalla disinformazione cui sono costretti. Solo così sarà loro possibile opporsi efficacemente al sistema che li sfrutta, e che si fonda anche su leggi sull’immigrazione che vanno smantellate. Il recente ciclo di lotte che ha investito il settore logistico in Italia, in cui sono impiegati per la maggior parte lavoratori stranieri, ha dimostrato che si possono ottenere significative vittorie andando a colpire lo stoccaggio e la movimentazione delle merci, poiché questi giocano un ruolo preponderante nella produzione di valore. Anche in agricoltura. Uniamo le lotte!

Perché tutte e tutti abbiamo diritto a cibo sano e prodotto in modo equo.

Per approfondimenti:

dati.istat.it Isfol, 2011. Dimensioni e caratteristiche del lavoro sommerso/irregolare in agricoltura. isfoloa.isfol.it/bitstream/123456789/120/1/Iadevaia_Mainardi_Lavoro%20sommerso.pdf

The EU explained: Agriculture, 2014: ec.europa.eu/agriculture/cap-overview/2014_en.pdf

campagneinlotta.org

http://collettivoricercazione.noblogs.org/

Libri

Brigate di Solidarietà Attiva et al. 2012. Sulla pelle viva. Nardò: la lotta autorganizzata dei braccianti immigrati. Roma: DeriveApprodi.

Clash City Workers, Dove sono i nostri: Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi. Lucca, La casa Usher, 2014.

Questo articolo fa parte del libro “Genuino Clandestino: Viaggio tra le agri-culture resistenti ai tempi delle grandi opere”, un libro di Michela Potito, Roberta Borghesi, Sara Casna, Michele Lapini, edito da Terra Nuova Edizioni.