INCONTRO NAZIONALE GENUINO CLANDESTINO ROMA – 16/18 MAGGIO – PROPOSTA DI DISCUSSIONE TAVOLO DI LAVORO “Lavoro bracciantile e caporalato in agricoltura”

Sabato 17 Maggio h. 10 – 13 – Forte Prenestino

Proposta del coordinamento piemontese lavoro bracciantile

I braccianti salariati – e i più numerosi braccianti avventizi, “giornalieri” – hanno rappresentato un bacino di manodopera centrale per lo sviluppo del capitalismo agrario. Si è spesso trattato di masse di contadini e montanari poveri, migranti interni stagionali, che, con il loro lavoro malpagato, hanno arricchito il capitale delle aziende agrarie. Oggi, la manodopera bracciante da Nord a Sud Italia, è composta principalmente da migranti non comunitari e neo-comunitari, i quali offrono le loro braccia in cambio di quattro soldi, in una condizione di costante incertezza e precarietà lavorativa e abitativa, sotto la minaccia della disoccupazione forzata, il ricatto da parte del padrone, dei suoi caporali, del dispositivo della Bossi-Fini e sotto il peso dei prezzi bassi che le GDO pagano ai contadini .
Si sopravvive in “campi” – tendopoli-ghetto auto-costruite e spazialmente segregate – dove a stento ci si ripara da pioggia e freddo, oppure in abitazioni indegne sotto la minaccia di sgombero, sempre in condizioni sanitarie degradanti, dove l’invisibilità politica e sociale si accompagna sistematicamente a quella lavorativa. I lavoratori accampati ed ultraprecari di Canelli, Foggia, Nardò, Castelnuovo Scrivia, San Ferdinando, Saluzzo, Boreano, Rosarno vanno infatti ad ingrossare le fila di quel bacino di manodopera eccedente utile a fomentare l’economia schiavista del lavoro grigio e nero in agricoltura.
Questa è l’Italia: in Piemonte, Campania, Basilicata, Calabria, Veneto, Puglia le storie si assomigliano, perchè questo è il sistema agroindustriale su cui si fonda lo sfruttamento delle terre e del lavoro voluto dalla UE e dalle organizzazioni padronali. Questo è il capitalismo nelle campagne, la filiera dello sfruttamento, che porta il Made in Italy sugli scaffali del mondo e garantisce i profitti alla GDO.
Le risposte delle istituzioni nazionali e locali sono inadeguate e parziali, per lo più a carico del sistema socio-assistenziale e del terzo settore. Ciò è dovuto ad visione sempre e solo “gestionale”, quando non propriamente “emergenziale”, del movimento dei migranti, ad una riduzione sistematica di queste persone a mera manodopera, da includere “differenzialmente” in un mercato del lavoro segmentato, oppure da escludere temporaneamente in campi o ghetti – dispositivi di regolazione del tempo della mobilità, utili a “decelerare” il flusso di forza-lavoro migrante, in virtù del funzionamento “just-in-time” del capitalismo iperflessibile. A ciò concorrono tutti i gradi dello Stato, dalle politiche migratorie nazionali bi-partisan degli ultimi 25 anni di cui emblematico è il regime di mobilità imposto dalla Bossi-Fini, fino all’atteggiamento discriminatorio dei Comuni che negano a migrant* e rifugiat* la possibilità di iscrizione anagrafica sul proprio territorio.
Il complesso ‘umanitario’ di gestione dei flussi migratori è atto a fornire manodopera a bassissimo costo per il lavoro agricolo, come evidente nel caso del CIE di Palazzo San Gervasio e dei CARA di San Giuliano, di Borgo Mezzanone, nati in distretti in cui è alta la richiesta di mano d’opera e dove i caporali hanno libero accesso per l’approvvigionamento di questa. O, ancora,come ha dimostrato la vicenda della cd. “Emergenza Nordafrica”, laddove i rifugiati sono andati ad ingrossare le fila delle braccia di riserva nelle campagne,  fenomeno che non potrà che aumentare con i massicci sbarchi, legati a Mare Nostrum.
A ciò si aggiunge l’assenza di auto-organizzazione sindacale, particolarmente evidente in agricoltura, dove il conflitto è latente perchè i braccianti vivono una condizione lavorativa individualizzata, laddove i sindacati della “concertazione” sono  conniventi con il padronato – le cui strategie di sfruttamento/segmentazione/fidelizzazione della manodopera sono pervasive – e con la Grande Distribuzione Organizzata, che si trova al vertice della catena di sfruttamento. L’unica risposta al vincolo padronato agricoloGDO sta nell’auto-organizzazione di lavoratori e disoccupati, migranti e autoctoni, nell’unità dal basso sulle lotte concrete relative a salario, reddito, salute, abitare, contro la distruzione dei diritti del lavoro e la mercificazione della vita nelle nostre campagne.
Pensiamo, infine, che la salvaguardia della terra come i diritti dei lavoratori non possa prescindere dal ritorno ad una AGRICOLTURA CONTADINA, capace di riappropriarsi di terre, tempi e modalità di lavoro lontani dalle logiche capitalistiche. Siamo però anche consci della fase storica dello sviluppo capitalistico nei territori in cui ci muoviamo, dove l’agricoltura contadina e montana da decenni è schiacciata da un modello agroindustriale intensivo, spesso multinazionale, la cui catena di sfruttamento ricade sistematicamente sui braccianti – veri e propri operai precari, nella stragrande maggioranza migranti – e la cui riconversione verso forme di riappropriazione contadina appare un orizzonte impervio. A partire, dunque, dalla realtà dei nostri contesti territoriali locali, situati in Italia ed in Europa, dove il capitale ha da decenni polverizzato il confine tra agricoltura ed industria, e guardando alle lotte bracciantili costruite con efficacia nel resto dell’Europa mediterranea, proponiamo che il nostro confronto parta dalla condizione di lavoratori e manodopera eccedente – migranti e non, stanziali e nomadi forzati – e dal conflitto che possono mettere in campo per cambiare concretamente le proprie condizioni di lavoro e di vita. Considerato che, laddove molti italiani tornano – per scelta – a forme di agricoltura contadina dopo esperienze di vita anche metropolitana e cosmopolita, moltissimi braccianti migranti provengono invece da contesti rurali ad agricoltura di sussistenza e non deve essere scontato considerare che il loro orizzonte di vita e di lavoro sia strutturalmente quello.
Lavoro / Auto-organizzazione / Produzione:
•    In che misura il caporalato non è altro che un “mezzo” utile alle logiche del Capitale, e secondo quali altri principi organizzativi il Capitale può funzionare, dando comunque adito a forme pervasive di sfruttamento della manodopera bracciantile?
•    Quali sono le rivendicazioni bracciantili più immediate da mettere in campo, per costruire conflitto sociale nel settore agroindustriale, da decenni imperante in Italia ed in Europa (rivendicazione salariale, orari e condizioni lavorative, un meccanismo chiaro, di graduatoria, per le assunzioni, etc)?
•    Quali sono possibili percorsi di auto-organizzazione delle lotte bracciantili e rispetto a quali controparti? Quale l’efficacia reale delle diverse tattiche di lotta (blocchi, invasione dei campi, vertenze, scioperi)? E’ possibile costruire un fronte di lotta che colpisca la GDO ad ogni livello? Che rivendicazioni possono fungere da momento ricompositivo nelle campagne tra disoccupati e occupati, migranti e autoctoni, stagionali e stanziali, titolari di differenti status giuridici, tra cui figura sempre più quello di protezione temporanea (rifugiati, protezione sussidiaria e umanitaria)?
•    L’agricoltura è sempre più settore “rifugio” per lavoratori espulsi da altri settori e territori. È possibile organizzare una mobilitazione trasversale a settori e nazionalità, che metta insieme sfruttati e disoccupati italiani, neo-comunitari e non comunitari, contro la precarietà? L’orizzonte  è quello di rivendicare “più lavoro” o piuttosto ridiscutere il significato di “lavoro” e “produzione”, partendo dalla centralità della terra nelle dinamiche di enclosures vecchie e contemporanee?
•    E’ possibile pensare al lavoro migrante come risposta per creare una filiera che parta dall’agricoltura contadina, con lo scambio di saperi e costumi diversi, fino alla distribuzione sul territorio, attraverso canali diversi da quelli che il capitalismo impone? Come unire le lotte bracciantili alle lotte contadine legate alla riappropriazione della sovranità alimentare da parte delle comunità locali?

Abitare / Spazio-campo / Salute e Cura:

    •    Se i campi da un lato rappresentano la materializzazione della razzializzazione del lavoro, dall’altro prefigurano socialità alternative alla logica della proprietà privata: è proprio  nei campi che si sperimentano forme di auto-organizzazione, cura e militanza tra chi li vive e chi li attraversa. Mediante quali pratiche e rispondendo a quali bisogni si può partire dallo spazio-campo per risignificarlo, rendendolo terreno fertile per la maturazione delle lotte? Quali sono esempi efficaci di contro-campi?
•    I campi sono un esempio lampante di come ogni aspetto della vita dei lavoratori sia sottoposto a valorizzazione, inclusa la sessualita’. Inoltre, la sessualita’ femminile è utilizzata dai padroni come ricatto per l’accesso al lavoro, aggiungendo un ulteriore livello di sfruttamento fondato sulla differenza sessuale. In che modo si può includere la questione del lavoro riproduttivo nella costruzione delle rivendicazioni?
•    Come si può ragionare ed agire sulla questione dell’abitare come un fattore non temporaneo, cercando di costruire soluzioni più stabili, oltre l’emergenzialità e oltre la stagione, considerato che le persone che attraversano le campagne in cerca di lavoro sono spesso costrette ad una condizione di nomadismo forzato fatto di disoccupazione ed assenza di prospettive e che lo spazio abitativo è fondamentale per la salute fisica e mentale di ogni persona?

Proposta dell’Osservatorio MIgranti Basilicata

La questione bracciantile si pone all’interno della questione contadina e insieme occupazionale di un territorio agricolo depresso e in crisi.
Le tre cose (sfruttamento e lotta del proletariato agricolo, questione contadina e questione occupazionale), dal nostro punto di vista, non sono scindibili e quindi la questione che si pone è: che percorsi possibili mettere in campo per coniugare:
1) recupero dell’agricoltura,

2) ritorno all’agricoltura come alternativa occupazionale all’emigrazione o al supersfruttamento clientelare (per non parlare del “ritorno alla terra” come possibile risposta alla crisi anche in una chiave riappropriativa – vedi appunto terra bene comune…),

3) integrazione multietnica e sedentarizzazione… questa è la prospettiva della contadinizzazione, che in sé non può prescindere dalla questione della riconversione colturale – perché il modo di produzione in agricoltura cambia anche in base a questo, una filiera monocolturale orientata all’esportazione è fisiologicamente dipendente dal mercato, le sue speculazioni e oscillazioni, e, seppure lascia margini ad esperienze di nicchia, in generale trova nella grossa impresa di commercializzazione l’unica realtà in grado di sostenere costi e – appunto – oscillazioni, facendo leva su economie di scala – quantità – da una parte (quindi assetti fondiari latifondistici o controllo della produzione anche quando non in proprietà diretta) e abbassamento dei costi di produzione dall’altra(essenzialmente lavoro, ma anche logistica e trasporti…).
Quindi convertire significa una produzione agricola diversificata, che intanto risponda anche a un’istanza di auto-sussistenza e secondariamente a un mercato locale, con possibilità di filiera sostenibile, raccordata ai mercati esterni ma prima di tutto rivolta ai consumi locali (si pensi alla passata di pomodoro o al pane o alla pasta…), secondo un auspicabile processo virtuoso di distribuzione diffusa del lavoro e del reddito (fare il grano e la pasta e venderla in loco significa che la terra si recupera per coltivarla e ci lavora chi miete e vende, ci lavora il mugnaio, ci lavora il panificatore, il consumatore locale ha un prodotto accessibile e di qualità garantita… ci guadagna il territorio perchè i soldi ricircolano localmente invece di andare fuori… nel caso della pasta idem…).
Resta aperta la questione del rapporto col piccolo commercio:
• è possibile un’alleanza?
• non sarebbe più praticabile una dimensione di spacci autogestiti?
• sono possibili entrambe le cose?
Optare per questa strategia significa non credere che siano possibili margini di avanzamento per la condizione operaia in agricoltura, poiché la fase di sviluppo capitalistico internazionalizzato del settore non consente di mettere in discussione la politica dei bassi prezzi (combinazione di consumo di massa, economia di scala e sfruttamento lungo tutta la filiera su cui si realizzano i margini di profitto). Quindi ogni lotta migliorista, es. contro il lavoro nero, o resterà lettera morta – vedi legge contro il caporalato – o, se efficace, introdurrà degli sviluppi nel modo di produzione orientati a riguadagnare in produttività quanto perso in sfruttamento, quindi più meccanizzazione, più controllo diretto dei fondi, più grandi aziende, meno lavoratori si chiama razionalizzazione capitalistica.
I piccoli scompariranno del tutto e probabilmente lo sfruttamento sarà solo meglio vestito, ma qualitativamente, se non quantitativamente, immutato (si vedano aziende anche considerate modello dell’agroindustria locale che impiegano sistematicamente manodopera inquadrata e retribuita a part time per lavoro full time…). cioé: siccome non siamo in una fase espansiva ma decadente, le prospettive della lotta operaia di necessità non possono essere progressive… al massimo di resistenza. al massimo si può scagliare una migliore sistemazione per le condizioni di vita, che consentirebbe anche una minore ricattabilità e forme meno cruente di sfruttamento come il caporalato (se non hai bisogno di qualcuno che ti trova il lavoro perché il sistema di collocamento funziona, perché è meno dispersa la dinamica d’impiego – non tanti microcontadini che ti prendono per qualche giorno ma poche mediograndi aziende – se c’è una mobilità garantita e meno isolamento residenziale… il caporalato muore o meglio si trasforma nella sua forma legalizzata/edulcorata delle cooperative come ci sono nella logistica).
Ecco perché la lotta deve procedere contemporaneamente sui due fronti:
1. nell’immediato per le condizioni immediate delle masse bracciantili – facendo capire ai territori che questo ha ricadute positive e non negative… perché se queste masse sono meno disagiate tutto il territorio vivrà meno degrado;
2. nel medio e lungo termine per la riappropriazione contadina.
Qui c’è un passaggio politico fondamentale e controverso: la dimensione strategica della lotta bracciantile non è transterritoriale ma territoriale, nelle prospettive della lotta contadinista sul territorio si colloca l’orizzonte strategico a lungo termine della lotta bracciantile.
qui si pone la grossa questione: qual’è il rapporto tra ricomposizione di classe e ricomposizione popolare a base territoriale? qual’è il rapporto tra generale e particolare in quest’ottica? quale la funzione delle reti?