Foggia: il confine é anche qui. Bilancio di un’estate di lotta e prospettive future

L’autunno in Capitanata inizia tragicamente, con la notizia del brutale omicidio di un bracciante africano e del ferimento di un altro, rei di aver sottratto da un campo qualche melone marcio. Ma la stagione di raccolta appena terminata nel foggiano é stata caratterizzata non soltanto da soprusi, ingiustizie ed efferatezze che si ripetono tristemente da decenni. A partire dal 4 settembre, centinaia di braccianti di diverse provenienze e decine di compagne e compagni hanno dato vita ad una settimana di mobilitazioni, dimostrando che al razzismo di istituzioni e padroni, principale arma dello sfruttamento feroce a cui i lavoratori sono costretti, non ci si può né ci si deve abituare. E confermando che, fuor di retorica, la lotta paga: un corteo selvaggio e determinato ha strappato due incontri in Prefettura, conclusisi nel segno dell’apertura su permessi di soggiorno e residenze, ma anche sul trasporto gratuito per chi lavora in campagna. Staremo a vedere se alle parole seguiranno i fatti, con la promessa di tornare in piazza se sarà necessario, mentre già i braccianti africani annunciano la volontà di organizzare un corteo per commemorare il compagno ucciso.

Ma l’esperienza foggiana é anche occasione per una riflessione più ampia, che ci conferma una volta di più la necessità di ampliare il fronte di lotta. I primi, parziali successi ottenuti dalle mobilitazioni di fine estate sono il risultato di un lungo percorso, portato avanti in diversi territori da cui transitano i lavoratori agricoli stagionali. Territori ‘di confine’, e non soltanto per la violenza che li attraversa o per l’abbandono, tutto apparente, di istituzioni che invece li governano proprio per mezzo di un’incuria generatrice di profittevoli emergenze. Da anni ormai, chi si occupa di analizzare e contestare il controllo della mobilità a livello europeo e planetario sostiene come il confine, lungi dallo scomparire come vorrebbero alcuni apologeti della globalizzazione, si sia in realtà frammentato e moltiplicato. Insomma, ammesso che lo sia mai stato, attualmente il confine non é più soltanto una linea che divide gli stati sovrani ma un dispositivo che crea complesse gerarchie e differenze e che si applica ovunque, sui corpi di soggetti catalogati a seconda di criteri quali la provenienza geografica, limitandone la capacità di muoversi, agire, esercitare diritti e fruire di servizi.

E così, da questa prospettiva la provincia di Foggia non appare poi così diversa da una Lampedusa o da una Ventimiglia, da Calais o dal confine ungherese. Anzi, ne rappresenta lo sviluppo naturale, l’evoluzione logica, con i suoi ‘ghetti’ ed i suoi ‘centri d’accoglienza’ (dove gli uni non sono che una versione degli altri), disseminati non a caso intorno ai suoi campi di pomodoro, su cui si spezzano la schiena decine di migliaia di persone ogni anno. Che si fugga da una guerra conclamata, piuttosto che da quelle a bassa intensità che il capitale porta avanti per continuare nel suo progetto di rapina, poco importa – si finirà in tutti i casi ad ingrossare le fila di un esercito di braccia a poco prezzo, su un altro fronte di guerra: quello del lavoro iper-sfruttato. E che si abbia o meno bisogno di un permesso di soggiorno per essere riconosciuti come titolari di diritti, si é comunque soggetti a meccanismi di confinamento che di quei diritti, già insufficienti, fanno carta straccia. Ecco perché una lotta per la libertà di movimento non può, a nostro avviso, prescindere dalla ricomposizione di un fronte di lotta contro lo sfruttamento, che contempli anche la lotta per la libertà di non partire. Accanto ai braccianti africani, in molti casi da poco sbarcati sulla sponda settentrionale del Mediterraneo, in piazza a Foggia stavano lavoratori comunitari che vivono in ghetti del tutto simili, e percepiscono salari del tutto paragonabili a quelli dei loro colleghi. E che, a Foggia come nel resto d’Italia, sono la maggioranza della forza-lavoro che le leggi di questo paese definiscono come ‘straniera’. É il gioco al ribasso a cui il confine dà inizio, ma che sul confine non si ferma. Per questo, la richiesta di una residenza anche per chi non vive in dimore riconosciute come tali – baraccopoli e case occupate, piuttosto che per strada – rappresenta un importante punto di convergenza su cui puntare per quell’allargamento del fronte di lotta di cui si diceva, a partire dalle importanti esperienze del movimento di lotta per la casa che si batte contro il cosiddetto ‘decreto Lupi’.

Ma i confini, dicevamo, creano differenze che invece importano eccome, poiché sono anche strumenti per creare profitto ed estrarre valore, e non soltanto attraverso il lavoro salariato ma anche sfruttando il lavoro gratuito e l’esistenza stessa di soggetti resi deboli. Lo sanno bene gli ‘ospiti’ di strutture di accoglienza in tutto e per tutto carenti, che combattono quotidianamente per standard minimi di vita, incluso il riconoscimento di un permesso di soggiorno. Tra questi luoghi di contenimento e sfruttamento, il CARA di Borgo Mezzanone, provincia di Foggia, é emblematico sia per la sua mala gestione (la stessa del suo corrispettivo siciliano a Mineo, finita sotto inchiesta all’interno di Mafia Capitale) fatta di sovraffollamento e scarsi servizi, e di tempi d’attesa infiniti per le audizioni in commissione, ma anche per la determinazione di chi ci vive, suo malgrado, nel portare avanti la lotta. Risale a poche settimane fa una nuova ondata di dinieghi alle richieste di protezione internazionale da parte della commissione di Borgo Mezzanone, del tutto in linea con le attuali tendenze a livello nazionale che vedono un calo nelle percentuali di riconoscimento di permessi ai richiedenti asilo, in barba alla retorica ufficiale sul dovere di accoglienza. Sono proprio i ‘diniegati’ la fetta più cospicua di chi popola baraccopoli e ghetti e che spesso, in virtù dell’irregolarità giuridica, si trova senza meta e senza prospettive.

In questo quadro, occuparsi di residenze e permessi di soggiorno (nella prospettiva di una lotta a leggi ingiuste, s’intende) ci appare come un passo necessario, insieme alle rivendicazioni che riguardano più propriamente le condizioni di lavoro ed il salario indiretto (casa e trasporti), per iniziare a costruire un fronte ampio di contrasto all’inasprirsi dell’offensiva contro tutte le lavoratrici e i lavoratori. L’esperienza foggiana ci ha ri-confermato come tale inasprimento colpisca anche i ‘locali’: significativo é il caso di Princes, colosso multinazionale dell’agroalimentare che in provincia di Foggia é proprietario della più grande fabbrica di trasformazione del pomodoro in Europa. Il loro gioco speculativo, che ha mirato ad aumentare i tempi di attesa per lo scarico dei tir di ‘oro rosso’ in modo da ottenerne il deprezzamento, ha colpito non soltanto i produttori ma ancor di più i trasportatori, pagati a viaggio e costretti ad attese superiori alle 24 ore. Nonostante il malcontento e la messa in atto di blocchi estemporanei da parte di questa categoria di lavoratori, però, è evidente come la sfiducia nelle potenzialità della lotta, nonché la diffidenza verso la componente immigrata, abbiano ostacolato la creazione di alleanze lungo la filiera, sulle quali bisognerà però continuare a lavorare per potenziare rivendicazioni sempre più urgenti. In ogni caso, l’assenza dei sindacati, ed in alcuni casi la loro aperta ostilità nei confronti di percorsi di auto-organizzazione da parte di lavoratrici e lavoratori, non passa certo inosservata ma è anzi una spinta per la creazione di percorsi autonomi.

Insomma, la stagione è finita, ma le lotte sono appena cominciate.